“Beato chi abbandona questo mondo, prima ancora che il mondo lo abbandoni”: questo, nel 1404, ha fatto scrivere Tamerlano sul Mausoleo Gur-emir, dedicato ad un nipote a lui molto caro caduto in guerra, a Samarkanda. Questa mitica città del nostro immaginario si trova in Uzbekistan, ex repubblica sovietica dell’Asia centrale. E tanto il nome della prima si associa alla bellezza, al mistero di regni grandi e remoti, a un’arte mongolo-persiana di rara seduzione, per la singolare commistione di elementi orientali, con animali favolosi, con spunti della iconografia cinese, con fiori di loto, rami e foglie, e gli azzurri straordinari che catturano la mutevolezza del cielo in un mosaico, tanto il nome della seconda si associa al grigiore della depressone culturale e umana che il socialismo sovietivo ha imposto a milioni di persone.
A Samarkanda, il più mitico dei re è stato Tamerlano, guerriero e conquistatore, di grande coraggio, aggressività e lucidità. Meno noti sono la saggezza di quest’uomo, “barbaro” e profondo, e il suo sguardo sulla vita e sul mondo, lui conquistatore vincente e, al suo tempo, invincibile.
Solo chi è veramente grande sa cogliere – anche dentro di sé – il senso di finitezza, di orizzonte concluso, dentro la forza propulsiva e la passione che portano le persone di particolare energia e carisma a conquistare il mondo (in senso reale o metaforico). Una finitezza complessa: legata al nostro umanissimo destino mortale, che costantemente neghiamo, credendoci immortali e comportandoci come cicale sventate o cavallette distruttive, nei confronti degli altri e del mondo che per poco tempo abitiamo. Più sottilmente, una finitezza legata alle vicissitudini della vita che ci possono portare dalle stelle alla polvere nello spazio di una notte. In questo “essere abbandonati dal mondo”, non a caso scolpito in memoria di un uomo giovane, probabilmente il suo erede designato per valore, intelligenza e coraggio, Tamerlano ha incluso un’altra possibilità: l’essere abbandonati perché la morte allontana per sempre da noi quelli che amiamo e sono più cari al nostro cuore. In questi distacchi che sono tanto più dolorosi quanto più sono rapidi e inattesi, tutto il valore del mondo può diventare in un secondo irrilevante. Tutto quello per cui lottavamo perde improvvisamente di significato. E tutto quanto avevamo conquistato, nel nostro picccolo o grande mondo, sembra appannarsi. Certo, se abbiamo capacità di sentimenti e cuore grande per gli affetti.
La riflessione di Tamerlano, che è in linea con il pensiero più profondo di altre culture, dal “tutto scorre” eracliteo al “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità) di biblica memoria, contiene tuttavia un aspetto particolare. E’ la consapevolezza del protagonista, che attivamente sceglie il momento della chiusura, invece di subirla. E’ da intendersi come un ritirarsi dal mondo, abbandonando impegni e affetti, prima che il tempo delle cose si chiuda? Non necessariamente.
Mi sembra – o mi piace pensare – che ci sia un suggerimento più sottile, che interessa le diverse stagioni e i diversi ambiti della vita. Un invito a tenere, anche dentro la più intensa delle passioni – di conquistare, di amare, di perseguire un progetto o realizzare un sogno – una capacità di distacco. Intendo: di porre le cose in prospettiva, di porre una distanza che ci consenta di lasciarle andare, per un giorno o per il resto della vita, se il loro tempo è compiuto, o se eventi avversi – indotti dal destino o dalla perfidia altrui – ci obbligano a separarci da quanto avevamo a lungo coltivato e amato. Non c’è differenza, nell’intensità del dolore, se il distacco coinvolge una persona, un animale amato o un progetto di vita. E’ l’intensità del nostro impegno emotivo e di energie vitali, è l’intensità della nostra passione e del nostro amore che determina l’intensità della perdita che viviamo in un distacco.
Tamerlano ha continuato a conquistare e vincere, oltre il 1404. Ma quella sua riflessione, che ha attraversato i secoli e ancora ci colpisce, come un testamento spirituale più duraturo delle sue effimere conquiste, suggerisce un esercizio mentale, una disciplina dello spirito, l’allenamento a guardare le cose amandole ma senza aggrapparvisi come se fossero l’unica ragione di vita, a vivere con il massimo di intensità e di impegno, ma al tempo stesso con il senso del tempo e della caducità ultima delle umane cose. A vivere ogni giorno come se fosse davvero l’ultimo, non nel senso del nichilismo che si arrende prima di iniziare, bensì nel monito a vivere ogni attimo, con i suoi affetti e i suoi progetti, con la massima intensità e qualità, perché questo tempo non torna, e insieme con la saggezza di lasciarlo andare, perché nell’averlo vissuto al nostro meglio c’è la pacificazione con la nostra finitezza e gli abbandoni del mondo.
A Samarkanda, il più mitico dei re è stato Tamerlano, guerriero e conquistatore, di grande coraggio, aggressività e lucidità. Meno noti sono la saggezza di quest’uomo, “barbaro” e profondo, e il suo sguardo sulla vita e sul mondo, lui conquistatore vincente e, al suo tempo, invincibile.
Solo chi è veramente grande sa cogliere – anche dentro di sé – il senso di finitezza, di orizzonte concluso, dentro la forza propulsiva e la passione che portano le persone di particolare energia e carisma a conquistare il mondo (in senso reale o metaforico). Una finitezza complessa: legata al nostro umanissimo destino mortale, che costantemente neghiamo, credendoci immortali e comportandoci come cicale sventate o cavallette distruttive, nei confronti degli altri e del mondo che per poco tempo abitiamo. Più sottilmente, una finitezza legata alle vicissitudini della vita che ci possono portare dalle stelle alla polvere nello spazio di una notte. In questo “essere abbandonati dal mondo”, non a caso scolpito in memoria di un uomo giovane, probabilmente il suo erede designato per valore, intelligenza e coraggio, Tamerlano ha incluso un’altra possibilità: l’essere abbandonati perché la morte allontana per sempre da noi quelli che amiamo e sono più cari al nostro cuore. In questi distacchi che sono tanto più dolorosi quanto più sono rapidi e inattesi, tutto il valore del mondo può diventare in un secondo irrilevante. Tutto quello per cui lottavamo perde improvvisamente di significato. E tutto quanto avevamo conquistato, nel nostro picccolo o grande mondo, sembra appannarsi. Certo, se abbiamo capacità di sentimenti e cuore grande per gli affetti.
La riflessione di Tamerlano, che è in linea con il pensiero più profondo di altre culture, dal “tutto scorre” eracliteo al “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità) di biblica memoria, contiene tuttavia un aspetto particolare. E’ la consapevolezza del protagonista, che attivamente sceglie il momento della chiusura, invece di subirla. E’ da intendersi come un ritirarsi dal mondo, abbandonando impegni e affetti, prima che il tempo delle cose si chiuda? Non necessariamente.
Mi sembra – o mi piace pensare – che ci sia un suggerimento più sottile, che interessa le diverse stagioni e i diversi ambiti della vita. Un invito a tenere, anche dentro la più intensa delle passioni – di conquistare, di amare, di perseguire un progetto o realizzare un sogno – una capacità di distacco. Intendo: di porre le cose in prospettiva, di porre una distanza che ci consenta di lasciarle andare, per un giorno o per il resto della vita, se il loro tempo è compiuto, o se eventi avversi – indotti dal destino o dalla perfidia altrui – ci obbligano a separarci da quanto avevamo a lungo coltivato e amato. Non c’è differenza, nell’intensità del dolore, se il distacco coinvolge una persona, un animale amato o un progetto di vita. E’ l’intensità del nostro impegno emotivo e di energie vitali, è l’intensità della nostra passione e del nostro amore che determina l’intensità della perdita che viviamo in un distacco.
Tamerlano ha continuato a conquistare e vincere, oltre il 1404. Ma quella sua riflessione, che ha attraversato i secoli e ancora ci colpisce, come un testamento spirituale più duraturo delle sue effimere conquiste, suggerisce un esercizio mentale, una disciplina dello spirito, l’allenamento a guardare le cose amandole ma senza aggrapparvisi come se fossero l’unica ragione di vita, a vivere con il massimo di intensità e di impegno, ma al tempo stesso con il senso del tempo e della caducità ultima delle umane cose. A vivere ogni giorno come se fosse davvero l’ultimo, non nel senso del nichilismo che si arrende prima di iniziare, bensì nel monito a vivere ogni attimo, con i suoi affetti e i suoi progetti, con la massima intensità e qualità, perché questo tempo non torna, e insieme con la saggezza di lasciarlo andare, perché nell’averlo vissuto al nostro meglio c’è la pacificazione con la nostra finitezza e gli abbandoni del mondo.