Sul fronte opposto dal punto di vista dei talenti, ma sulla stessa ammirevole linea del “fare cose non da tutti”, sta Giovanni, 7 anni, nato con la mancanza di un frammento del cromosoma 4. Lesione misteriosa, chiamata sindrome di Wolf-Hirshorn, che impedisce qualsiasi apprendimento: a tre anni il bambino non parlava e nemmeno gattonava. I genitori non si sono arresi a diagnosi mediche pessimistiche, anzi terribili. «Come si può aver fiducia nelle cure, se neanche i medici ce l’hanno?», dice la mamma Camilla. Lei, unita al marito, non si è arresa. Cercano nuove cure per mesi e anni. Ed ecco la rivoluzione copernicana: un’équipe israeliana, guidata da Shai Silberbush, usa un metodo peculiare per stimolare il cervello di bambini con deficit gravi di apprendimento: porli davanti ad ostacoli, studiati per essere una sfida difficile, ma superabile, adeguata al livello intellettivo e motorio di quel dato bambino.
Nel 2012, la prima volta che i genitori portano Giovanni in Israele, l’esperienza è traumatica: il bambino viene lasciato solo sul pavimento con intorno cuscini alti per lui. Piange, si dispera, i genitori a guardarlo dietro ai vetri della stanza, con le lacrime agli occhi e il cuore a pezzi: vederlo disperarsi e non poterlo aiutare. Ma che cura è?! Eppure, quel cuscino messo davanti al bambino fa scattare nella sua mente il click impossibile: superarlo! Da allora, dopo quel cuscino superato gattonando per la prima volta, Giovanni ha fatto progressi superiori alla più rosea delle aspettative mediche: parla, cammina, corre. Ieri per la prima volta è riuscito ad andare in bicicletta, con una risata di soddisfazione che la mamma non gli aveva mai sentito. Ecco il punto: il genitore facilita il click, e aiuta ogni bambino a crescere, se di fronte all’ostacolo, o alla difficoltà, gli/le dà il tempo e il modo per cercare di superarli, invece che toglierglieli di mezzo, come oggi fanno purtroppo moltissimi genitori, seppur in buona fede o per malinteso amore.
Perché questa strategia della “frustrazione ottimale” è terapeutica, e vincente anche nella vita di ogni bambino normodotato? Perché la soddisfazione (“principio di ricompensa”) che ognuno di noi prova quando supera un ostacolo è un potentissimo fattore di piacere e di motivazione a rimettersi alla prova di nuovo. Il gusto della sfida, del riprovarci, di sentire crescere la capacità e l’abilità, fisica, motoria, emotiva, intellettiva, artistica o musicale che sia, stimola le cellule nervose, la “neuroplasticità”, il primo fattore di potenziamento di ogni talento.
Ecco il punto: per crescere bene, quanto è importante essere stimolati a superare da soli gli ostacoli, piccoli e grandi, che la vita presenta? Quanti bambini e adolescenti dotati finiscono nella frustrazione dell’inerzia e dello spreco di sé? Se il bambino, peraltro sanissimo, di sei anni dice all’ossequiosa tata «Mettimi le scarpe», qualcosa non va. Se, di fronte all’ospite basito, dice serafico, e un po’ compiaciuto: «Vedi, il mio problema è la pigrizia!», qualcosa di sostanziale non va. Se il bambino va male a scuola, e i genitori dicono che è sempre colpa degli insegnanti, qualcosa non va. Se il bambino imperversa anche in pubblico e fa quello che vuole, mentre i genitori lo assecondano, definendolo “il piccolo tiranno”, invece di educarlo a dare il meglio di sé rispettando le regole della convivenza civile, qualcosa non va. «Che male c’è a viziarlo un po’?». Un male grande, perché rischia di diventare un rachitico nella vita.
Ogni bambino ha le sue sfide: rispettiamo il bisogno essenziale di ogni piccolo di impegnarsi a superarle, all’interno di alcune regole di sicurezza. “Fargli trovare la pappa pronta”, facilitargli/le la vita in tutto, «tanto poi le difficoltà se le troverà più avanti», è un regalo avvelenato: quel bambino incapace di risolvere i problemi perché non motivato a farlo (cliccare sui social come un matto non è un segno di intelligenza, né di abilità speciali) diventerà un adolescente fragile. E frustrato perché da solo sa fare ben poco. «Più ostacoli ti mettono davanti, più impari a superarli e ad andar forte», mi dicevano da piccola: «Tutto allenamento!». Com’è vero. E con che gusto!
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