“Tantum homo potest, quantum scit”. L’uomo può tanto quanto sa: questo il motto inciso sul marmo della magnifica Aula magna dell’Università degli studi di Pisa, dove mi trovavo sabato per una delle lezioni inaugurali di un master universitario. Qui insegnò Galileo. E se storia e simboli ci dicono qualcosa, non c’è dubbio che la capacità trasformativa di un uomo, la sua capacità di incidere sul mondo, in vita ma anche a lungo dopo la morte, dipendono dal suo sapere.
In tempi più recenti, nel 1915: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” l’ha scritto Antonio Gramsci, che certamente di destra non era, come motto del suo giornale appena fondato. Frase fulminante che mi annotai sul diario, al liceo, perché conteneva un messaggio cardinale e un imperativo categorico: solo l’istruzione accurata, profonda e appassionata allena l’intelligenza ad esprimersi ai maggiori livelli. Intelligenza intesa nel senso etimologico (inter-legere) di capacità di cogliere i nessi esistenti tra i vari momenti dell’esperienza di vita. In tempi bui di dittatura, quest’uomo straordinario, dalla vita dolente e sofferta fin da bambino, anche per l’estrema povertà, vedeva nell’istruzione la vera via dell’emancipazione da destini di sfruttamento e sudditanza.
Come sta oggi la nostra università? Aperta quasi a tutti, è ai minimi storici della credibilità, della capacità educativa e di formazione professionale, affondata (con lodevoli eccezioni) nella paludi dell’indifferenza, del clientelismo e dell’accidia culturale. Invece che il fiore all’occhiello del Paese, dove si formano i giovani che nutriranno il nostro futuro, è diventata un bubbone dolente. Che deve essere inciso (ubi pus, ibi evacuat) e curato per recuperare slancio, entusiasmo, freschezza, passione per la cultura e rigorosa meritocrazia. Ci sta provando Mariastella Gelmini, che con Renato Brunetta si è presa l’onere di cercare di sanare le due piaghe più incancrenite del Paese: istruzione e pubblica amministrazione. Il putiferio scatenato da questo impegno trasformativo è sotto gli occhi di tutti. Certo, i nostri ministri qualche errore lo stanno facendo. D’altra parte, solo chi non fa nulla non sbaglia mai, e non c’è dubbio che i bubboni si siano incancreniti anche a causa di tanti lassismi ed errori precedenti.
Qual è il punto? Perché la sinistra, invece di fomentare gli istinti più distruttivi di una parte dei nostri studenti, non si fa promotrice di proposte migliorative e costruttive, così da mettere il ministro in condizioni di fare una riforma che sia espressiva delle forze migliori del Paese? Perché non fare di alcune ottime sedi universitarie, dove c’è ancora eccellenza di ricerca e di didattica, magari anche solo in una Facoltà, il paradigma di come dovrebbe andare il resto d’Italia? Perché non cercare di capire a fondo che cosa funzioni lì, pure in Italia, per farne modello per il resto? Perché la sinistra non si fa forza rivoluzionaria vera, non portando alcune migliaia di studenti a imbrattare muri e spaccare arredi urbani, ma a denunciare tutte le irregolarità che uccidono la meritocrazia? Perché non selezionare davvero i docenti universitari non solo in base alle pubblicazioni, ma anche alla effettiva capacità e passione didattica? Come giudicarla? Un primo indicatore, indiscutibile, è proprio la frequenza alle lezioni: che è massima e continuativa fino alla fine dell’anno accademico dove gli studenti sentono che s’impara davvero e con gusto. Perché moltissimi ragazzi provano un’autentica gratitudine e affezione per quei professori, sempre meno numerosi, che vedono la lezione come il momento più alto dell’Università, dove trasmettere il sapere e il gusto per l’eccellenza. Il secondo indicatore, altrettanto indiscutibile, è l’andamento degli studenti agli esami, quando siano seri e non gestiti con il famigerato “voto politico” di sessantottina memoria. Quando le lezioni sono eccellenti, gli studenti superano gli esami in primo e secondo appello con tassi di promozione e media di voto significativamente superiore agli studenti di pari anno e corso, i cui insegnanti abbiano fatto lezioni mediocri o francamente indegne. Perché non portare avanti progetti di didattica nazionali, così da garantire un livello adeguato di insegnamento? Oggi i mezzi ci sono. Si può fare lezione anche a distanza: meglio un insegnante competente e appassionato online che una mummia in aula. Chi non sa insegnare, non si aggiorna, non fa ricerca e non pubblica, via! Da democratica per vocazione, con il cuore oggi lacero-contuso, vorrei vedere una sinistra propositiva, costruttiva, entusiasta, capace di vivere l’opposizione come un momento di trasformazione e di superamento di narcisismi e velleitarismi, soprattutto sul tema dell’istruzione. La riforma della scuola dovrebbe vedere anche i democratici in prima linea per migliorare e rilanciare il bisogno assoluto di qualità didattica (anche) universitaria, invece di diventare garanti dello status quo, fatto – in tanti contesti – di privilegi, inefficienze, piccoli e grandi sprechi, lassismo, quando non di palesi interessi privati. Ancora la storia può insegnarci molto. E molti potrebbero essere ispirati da “Team of rivals”, squadra di rivali, su Abramo Lincoln, scritto dalla grande storica americana Doris Kearn Goodwin (Simon & Schuster, 2005). Solo chi conosce bene la propria forza può avere la capacità e il coraggio di includere nella propria squadra i migliori dei rivali, per creare delle sinergie difficili ma straordinarie. O, se all’opposizione, di mettersi al servizio della squadra che in quel momento ha la responsabilità di governo. Chi è insicuro, o invidioso, o inguaribilmente narciso, perde invece le energie migliori nel criticare e distruggere i progetti dell’altro, paralizzando e paralizzandosi.
La nostra scuola, la nostra università, hanno bisogno di un intervento urgente, non più dilazionabile, prima di andare in coma irreversibile. Uniamo le forze migliori e (ri)diamo ai nostri ragazzi la possibilità di istruirsi al meglio. Con i tempi difficili che si presentano all’orizzonte, avremo davvero bisogno di tutta la loro intelligenza.
In tempi più recenti, nel 1915: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” l’ha scritto Antonio Gramsci, che certamente di destra non era, come motto del suo giornale appena fondato. Frase fulminante che mi annotai sul diario, al liceo, perché conteneva un messaggio cardinale e un imperativo categorico: solo l’istruzione accurata, profonda e appassionata allena l’intelligenza ad esprimersi ai maggiori livelli. Intelligenza intesa nel senso etimologico (inter-legere) di capacità di cogliere i nessi esistenti tra i vari momenti dell’esperienza di vita. In tempi bui di dittatura, quest’uomo straordinario, dalla vita dolente e sofferta fin da bambino, anche per l’estrema povertà, vedeva nell’istruzione la vera via dell’emancipazione da destini di sfruttamento e sudditanza.
Come sta oggi la nostra università? Aperta quasi a tutti, è ai minimi storici della credibilità, della capacità educativa e di formazione professionale, affondata (con lodevoli eccezioni) nella paludi dell’indifferenza, del clientelismo e dell’accidia culturale. Invece che il fiore all’occhiello del Paese, dove si formano i giovani che nutriranno il nostro futuro, è diventata un bubbone dolente. Che deve essere inciso (ubi pus, ibi evacuat) e curato per recuperare slancio, entusiasmo, freschezza, passione per la cultura e rigorosa meritocrazia. Ci sta provando Mariastella Gelmini, che con Renato Brunetta si è presa l’onere di cercare di sanare le due piaghe più incancrenite del Paese: istruzione e pubblica amministrazione. Il putiferio scatenato da questo impegno trasformativo è sotto gli occhi di tutti. Certo, i nostri ministri qualche errore lo stanno facendo. D’altra parte, solo chi non fa nulla non sbaglia mai, e non c’è dubbio che i bubboni si siano incancreniti anche a causa di tanti lassismi ed errori precedenti.
Qual è il punto? Perché la sinistra, invece di fomentare gli istinti più distruttivi di una parte dei nostri studenti, non si fa promotrice di proposte migliorative e costruttive, così da mettere il ministro in condizioni di fare una riforma che sia espressiva delle forze migliori del Paese? Perché non fare di alcune ottime sedi universitarie, dove c’è ancora eccellenza di ricerca e di didattica, magari anche solo in una Facoltà, il paradigma di come dovrebbe andare il resto d’Italia? Perché non cercare di capire a fondo che cosa funzioni lì, pure in Italia, per farne modello per il resto? Perché la sinistra non si fa forza rivoluzionaria vera, non portando alcune migliaia di studenti a imbrattare muri e spaccare arredi urbani, ma a denunciare tutte le irregolarità che uccidono la meritocrazia? Perché non selezionare davvero i docenti universitari non solo in base alle pubblicazioni, ma anche alla effettiva capacità e passione didattica? Come giudicarla? Un primo indicatore, indiscutibile, è proprio la frequenza alle lezioni: che è massima e continuativa fino alla fine dell’anno accademico dove gli studenti sentono che s’impara davvero e con gusto. Perché moltissimi ragazzi provano un’autentica gratitudine e affezione per quei professori, sempre meno numerosi, che vedono la lezione come il momento più alto dell’Università, dove trasmettere il sapere e il gusto per l’eccellenza. Il secondo indicatore, altrettanto indiscutibile, è l’andamento degli studenti agli esami, quando siano seri e non gestiti con il famigerato “voto politico” di sessantottina memoria. Quando le lezioni sono eccellenti, gli studenti superano gli esami in primo e secondo appello con tassi di promozione e media di voto significativamente superiore agli studenti di pari anno e corso, i cui insegnanti abbiano fatto lezioni mediocri o francamente indegne. Perché non portare avanti progetti di didattica nazionali, così da garantire un livello adeguato di insegnamento? Oggi i mezzi ci sono. Si può fare lezione anche a distanza: meglio un insegnante competente e appassionato online che una mummia in aula. Chi non sa insegnare, non si aggiorna, non fa ricerca e non pubblica, via! Da democratica per vocazione, con il cuore oggi lacero-contuso, vorrei vedere una sinistra propositiva, costruttiva, entusiasta, capace di vivere l’opposizione come un momento di trasformazione e di superamento di narcisismi e velleitarismi, soprattutto sul tema dell’istruzione. La riforma della scuola dovrebbe vedere anche i democratici in prima linea per migliorare e rilanciare il bisogno assoluto di qualità didattica (anche) universitaria, invece di diventare garanti dello status quo, fatto – in tanti contesti – di privilegi, inefficienze, piccoli e grandi sprechi, lassismo, quando non di palesi interessi privati. Ancora la storia può insegnarci molto. E molti potrebbero essere ispirati da “Team of rivals”, squadra di rivali, su Abramo Lincoln, scritto dalla grande storica americana Doris Kearn Goodwin (Simon & Schuster, 2005). Solo chi conosce bene la propria forza può avere la capacità e il coraggio di includere nella propria squadra i migliori dei rivali, per creare delle sinergie difficili ma straordinarie. O, se all’opposizione, di mettersi al servizio della squadra che in quel momento ha la responsabilità di governo. Chi è insicuro, o invidioso, o inguaribilmente narciso, perde invece le energie migliori nel criticare e distruggere i progetti dell’altro, paralizzando e paralizzandosi.
La nostra scuola, la nostra università, hanno bisogno di un intervento urgente, non più dilazionabile, prima di andare in coma irreversibile. Uniamo le forze migliori e (ri)diamo ai nostri ragazzi la possibilità di istruirsi al meglio. Con i tempi difficili che si presentano all’orizzonte, avremo davvero bisogno di tutta la loro intelligenza.
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