“No, mai!” ha urlato in chiesa la mamma di Vanessa Russo, quando il sacerdote ha invitato a perdonare le colpevoli dell’assassinio della figlia. Quell’urlo ha catalizzato altre grida di rabbia e di collera negli altri presenti: un consenso nella ribellione ad una richiesta che è parsa un oltraggio, nell’intempestività, se non, addirittura, nella sostanza. Un momento di comprensibile crisi personale? Un dolore troppo forte? No. Quell’urlo, mi sembra, ha una valenza ben più profonda e ampia. Perché?
Ci sono momenti, nella vita di un Paese, in cui, misteriosamente, un evento purtroppo frequente – quale è l’uccisione di un familiare – catalizza un netto cambiamento nel sentire e nel comportamento popolare.
Quell’urlo di ribellione, in un contesto sacro dove i fedeli abitualmente pronunciano solo frasi previste dalla liturgia, ma non osano parlare a voce alta, né tanto meno urlare la propria rabbia, e ancor meno contestare violentemente un’affermazione del sacerdote durante l’omelia, ci dice qualcosa di più profondo e ampio del dolore immenso di una madre.
Ci dice che molta parte dell’Italia non vuol più sentir parlare di perdono. Perché vede in questo gesto, da dare ormai in automatico, sempre e comunque, un oltraggio. Un oltraggio profondo ai sentimenti di chi è stato colpito negli affetti più cari. Una banalizzazione del dolore. Un azzeramento di tutto l’atroce senso di perdita, di lacerazione, di separazione, di abbandono, che la morte di un figlio amato, ma anche di un genitore, di un fratello, o di un amico, comporta. Ancora più intollerabile se è stata provocata non per un incidente o una malattia, ma per cinica aggressività, se non per pura malvagità altrui. O per crudele, indifferente violenza.
Gran parte degli italiani, esclusi i politici, sono stufi di vedere che a dover perdonare sono sempre gli Abele. E che per i Caino d’ogni estrazione e risma il perdono è quasi un atto dovuto. Così come diventa una fiction di pentimento il loro chiedere perdono, dopo qualsiasi efferatezza. Un perdono chiesto strumentalmente, nella maggioranza dei casi, solo per ottenere uno sguardo più benevolo in giudizio o una riduzione di pena, attraverso poi l’altra furbata del rito abbreviato. Il perdono diventa allora una vuota parola, perde il suo valore. Peggio: diventa perdonismo. Come tutti gli “ismi” indica una degenerazione sostanziale del suo senso profondo, dell’etica e dei valori. Una deriva delle norme tanto più inaccettabile quanto più diventa concreta e acre, negli affetti, la conseguenza delittuosa che la deriva stessa consente. Senza dimenticare che l’umana possibilità di perdonare davvero dipende anche da che tipo di dolore e di perdita affettiva sia in gioco: in alcuni casi perdonare può diventare umanamente impossibile.
Perché il perdono non può essere richiesto né imposto, né tanto meno diventare un comodo slogan? Perché è un gesto grande, divino per eccellenza. Richiede un nobile cuore, una capacità di sublimare il dolore, un lungo e faticoso travaglio interiore, in chi lo dà. Richiede statura morale, nonostante tutto, anche in chi lo riceve: perché, nella sua essenza, può catalizzare la capacità di cambiare, di crescere eticamente, quando lo si sia ricevuto, anche dopo una colpa gravissima. Questa capacità persuasiva del perdono, che induce al bene, è stata storicamente una delle sue più grandi forze, anche nell’educare a scegliere una vita migliore.
Grande paradigma di questo, nella nostra memoria collettiva, sono il Fra’ Cristoforo e l’Innominato, di manzoniana memoria. Ne “I promessi sposi” abbiamo infatti due esempi grandi di perdono. Giovane violento e ardente, il primo aveva ucciso un uomo in duello. Sconvolto dalla gravità della colpa, un omicidio, si pente, abbandona la vita precedente e si fa frate. E dopo un lungo travaglio interiore va con umiltà a chiedere perdono – ottenendolo – dal fratello dell’uomo da lui ucciso in duello. Dopo l’essere diventato frate, l’uomo, peccatore e assassino, si pente nella sostanza, cambia radicalmente vita: e diventa la luminosa figura di Frate che il Manzoni ci dipinge. Nel secondo episodio, è il Cardinal Federigo Borromeo a perdonare l’Innominato. E, anche lì, il perdono rivela tutto il suo potenziale trasformativo, perché anche l’Innominato, capo dei bravi, soldataglia violenta, si pente profondamente: subisce, per così dire, un collasso di consapevolezza della propria corruzione morale, e cambia vita. In questa segreta simmetria, il Manzoni ci dà una misura intensa, paradigmatica, della forza educativa del perdono: nel senso maieutico di tirar fuori, di far emergere il meglio dall’animo di chi è stato perdonato. Che mantiene la sua forza di personalità, ma cambia persuasivamente la direzione d’uso dei talenti verso il bene (si rileggano, per delizia dell’anima, i cap. 4 e 23 de “I promessi sposi”). Il perdono, nella sua essenza, è allora una misura straordinaria che può catalizzare i momenti più incisivi della vita di un uomo. O di una donna. Laici o religiosi che siano. Momenti in cui, perduti nelle paludi del male, anche attraverso una colpa grave, si può arrivare finalmente, e con molto dolore, a scegliere il bene. Ed è il cambiamento del perdonato che può essere di consolazione a chi perdona. Il che comunque non esclude, anzi, il bisogno di espiare e pagare per la colpa commessa, contrariamente a quanto la linea buonista (altra insopportabile degenerazione) tenda oggi a far credere. Se invece il perdono è strumentale, crea solo rabbia.
Cos’è rimasto, dunque, dell’antica grandezza trasformativa del perdono? Nulla, o quasi. Nel perdonismo corrente, la parola ha perso ogni valenza trasformativa, e perfino etica. E’ diventata uno slogan buonista, privo di forza morale. Ha perso gran parte della sua grandezza originaria (senza nulla togliere al valore di chi sia ancora capace di darlo col cuore). E’ diventato una parola qualunque. La rabbia urlata della mamma di Vanessa dice proprio questo: basta a questo perdonismo imperante. Basta alla negazione sistematica dei diritti degli Abele. Basta con la banalizzazione delle colpe e con l’assoluzione, di fatto, degli assassini. Basta con l’obbligo del perdono: ognuno ha tutto il diritto di non perdonare, senza per questo meritare la stigmatizzazione sociale. Basta, infine, all’urgenza, nel perdono, con il corpo di una figlia, uccisa da poche ore, ancora lì, davanti agli occhi. Basta slogan, perché vogliamo giustizia.
Il perdono vero, sentito, merita rispetto e ammirazione, quando viene dal cuore. Ma non può essere richiesto. Perché è un gesto raro, che necessita comunque di un tempo interiore, lungo e silenzioso, per attraversare la solitudine del dolore. E l’irreparabile verità della morte.
Ci sono momenti, nella vita di un Paese, in cui, misteriosamente, un evento purtroppo frequente – quale è l’uccisione di un familiare – catalizza un netto cambiamento nel sentire e nel comportamento popolare.
Quell’urlo di ribellione, in un contesto sacro dove i fedeli abitualmente pronunciano solo frasi previste dalla liturgia, ma non osano parlare a voce alta, né tanto meno urlare la propria rabbia, e ancor meno contestare violentemente un’affermazione del sacerdote durante l’omelia, ci dice qualcosa di più profondo e ampio del dolore immenso di una madre.
Ci dice che molta parte dell’Italia non vuol più sentir parlare di perdono. Perché vede in questo gesto, da dare ormai in automatico, sempre e comunque, un oltraggio. Un oltraggio profondo ai sentimenti di chi è stato colpito negli affetti più cari. Una banalizzazione del dolore. Un azzeramento di tutto l’atroce senso di perdita, di lacerazione, di separazione, di abbandono, che la morte di un figlio amato, ma anche di un genitore, di un fratello, o di un amico, comporta. Ancora più intollerabile se è stata provocata non per un incidente o una malattia, ma per cinica aggressività, se non per pura malvagità altrui. O per crudele, indifferente violenza.
Gran parte degli italiani, esclusi i politici, sono stufi di vedere che a dover perdonare sono sempre gli Abele. E che per i Caino d’ogni estrazione e risma il perdono è quasi un atto dovuto. Così come diventa una fiction di pentimento il loro chiedere perdono, dopo qualsiasi efferatezza. Un perdono chiesto strumentalmente, nella maggioranza dei casi, solo per ottenere uno sguardo più benevolo in giudizio o una riduzione di pena, attraverso poi l’altra furbata del rito abbreviato. Il perdono diventa allora una vuota parola, perde il suo valore. Peggio: diventa perdonismo. Come tutti gli “ismi” indica una degenerazione sostanziale del suo senso profondo, dell’etica e dei valori. Una deriva delle norme tanto più inaccettabile quanto più diventa concreta e acre, negli affetti, la conseguenza delittuosa che la deriva stessa consente. Senza dimenticare che l’umana possibilità di perdonare davvero dipende anche da che tipo di dolore e di perdita affettiva sia in gioco: in alcuni casi perdonare può diventare umanamente impossibile.
Perché il perdono non può essere richiesto né imposto, né tanto meno diventare un comodo slogan? Perché è un gesto grande, divino per eccellenza. Richiede un nobile cuore, una capacità di sublimare il dolore, un lungo e faticoso travaglio interiore, in chi lo dà. Richiede statura morale, nonostante tutto, anche in chi lo riceve: perché, nella sua essenza, può catalizzare la capacità di cambiare, di crescere eticamente, quando lo si sia ricevuto, anche dopo una colpa gravissima. Questa capacità persuasiva del perdono, che induce al bene, è stata storicamente una delle sue più grandi forze, anche nell’educare a scegliere una vita migliore.
Grande paradigma di questo, nella nostra memoria collettiva, sono il Fra’ Cristoforo e l’Innominato, di manzoniana memoria. Ne “I promessi sposi” abbiamo infatti due esempi grandi di perdono. Giovane violento e ardente, il primo aveva ucciso un uomo in duello. Sconvolto dalla gravità della colpa, un omicidio, si pente, abbandona la vita precedente e si fa frate. E dopo un lungo travaglio interiore va con umiltà a chiedere perdono – ottenendolo – dal fratello dell’uomo da lui ucciso in duello. Dopo l’essere diventato frate, l’uomo, peccatore e assassino, si pente nella sostanza, cambia radicalmente vita: e diventa la luminosa figura di Frate che il Manzoni ci dipinge. Nel secondo episodio, è il Cardinal Federigo Borromeo a perdonare l’Innominato. E, anche lì, il perdono rivela tutto il suo potenziale trasformativo, perché anche l’Innominato, capo dei bravi, soldataglia violenta, si pente profondamente: subisce, per così dire, un collasso di consapevolezza della propria corruzione morale, e cambia vita. In questa segreta simmetria, il Manzoni ci dà una misura intensa, paradigmatica, della forza educativa del perdono: nel senso maieutico di tirar fuori, di far emergere il meglio dall’animo di chi è stato perdonato. Che mantiene la sua forza di personalità, ma cambia persuasivamente la direzione d’uso dei talenti verso il bene (si rileggano, per delizia dell’anima, i cap. 4 e 23 de “I promessi sposi”). Il perdono, nella sua essenza, è allora una misura straordinaria che può catalizzare i momenti più incisivi della vita di un uomo. O di una donna. Laici o religiosi che siano. Momenti in cui, perduti nelle paludi del male, anche attraverso una colpa grave, si può arrivare finalmente, e con molto dolore, a scegliere il bene. Ed è il cambiamento del perdonato che può essere di consolazione a chi perdona. Il che comunque non esclude, anzi, il bisogno di espiare e pagare per la colpa commessa, contrariamente a quanto la linea buonista (altra insopportabile degenerazione) tenda oggi a far credere. Se invece il perdono è strumentale, crea solo rabbia.
Cos’è rimasto, dunque, dell’antica grandezza trasformativa del perdono? Nulla, o quasi. Nel perdonismo corrente, la parola ha perso ogni valenza trasformativa, e perfino etica. E’ diventata uno slogan buonista, privo di forza morale. Ha perso gran parte della sua grandezza originaria (senza nulla togliere al valore di chi sia ancora capace di darlo col cuore). E’ diventato una parola qualunque. La rabbia urlata della mamma di Vanessa dice proprio questo: basta a questo perdonismo imperante. Basta alla negazione sistematica dei diritti degli Abele. Basta con la banalizzazione delle colpe e con l’assoluzione, di fatto, degli assassini. Basta con l’obbligo del perdono: ognuno ha tutto il diritto di non perdonare, senza per questo meritare la stigmatizzazione sociale. Basta, infine, all’urgenza, nel perdono, con il corpo di una figlia, uccisa da poche ore, ancora lì, davanti agli occhi. Basta slogan, perché vogliamo giustizia.
Il perdono vero, sentito, merita rispetto e ammirazione, quando viene dal cuore. Ma non può essere richiesto. Perché è un gesto raro, che necessita comunque di un tempo interiore, lungo e silenzioso, per attraversare la solitudine del dolore. E l’irreparabile verità della morte.