ll lavoro è un’amante pericolosa. Ti seduce con lo scintillìo delle sue promesse: di successo, di status, di reddito, di relazioni sociali. Indossa i tuoi sogni, le tue ambizioni, i tuoi desideri. E quando ti ha preso il cuore, perché ne hai assaggiato il sapore eccitante, e ti piace il suo gusto di adrenalina nelle vene, e il lampo di esaltazione che ti fa vibrare quando ottieni la meta che desideravi, ti chiede sempre di più. Vuole il tuo tempo, le tue energie migliori, la tua creatività, la forza dei tuoi entusiasmi e dei tuoi slanci. Diventa geloso dei tuoi affetti e del tuo tempo libero. Può diventare pervadente come un’ossessione. Ti eccita e ti delude, ti provoca e ti frustra, sempre più esigente e sempre più coinvolgente. Entra in competizione con la famiglia e perfino con i figli. Può soddisfarti, a tratti così profondamente da riuscire a catalizzare ogni tuo pensiero. E ti spinge alla ricerca continua di quel picco di esaltazione e soddisfazione che ti fa sentire unico e felice, almeno per un’attimo.
Il lavoro (amato) è un’amante che non invecchia. Che sa cambiare con il mutare delle stagioni e del tuo tempo interiore. Diventa il baricentro della vita, la certezza su cui poggiare tutte le altre forze dell’esistenza. E’ un’amante/amica se il lavoro è scelto, è espressivo dei nostri talenti e delle nostre capacità, è capace di divertirci, di eccitarci, di farci sentire vivi, se incarna le nostre passioni. Ancor più se esprime la nostra vocazione più profonda.
Il lavoro (anche amato) è un’amante persecutoria. Tanto più quanto più l’abbiamo scelto cercando di soddisfare nel lavoro bisogni e desideri che altri ambiti della vita hanno lasciato scoperti. Come tutte le ossessioni, si nutre di riti e liturgie, che vanno dagli orari d’inizio, alla scansione del tempo, al controllo costante della posta elettronica, alla dipendenza sempiterna dal cellulare. Occupa piano piano spazi diversi della mente, corrompe il giudizio. E’ abilissimo nel trovare le motivazioni più persuasive per mantenere saldamente in mano le redini della mente e del cuore.
Gli americani parlano di “work-aholics”, drogati da lavoro. Con questo sottolineando che il rapporto ossessivo con il lavoro può assumere tutte le forme di una dipendenza patologica. Un tratto di personalità leggermente ossessivo può aiutare ad avere successo in lavori che richiedano capacità di organizzazione, metodologia rigorosa, controllo di qualità, analisi dei dati, dedizione per ore senza segni di cedimento mentale o fisico. Quando l’ossessione è marcata, quando senza lavoro la persona si sente svuotata di senso, è il caso di interrogarsi sul significato del proprio rapporto con il lavoro.
Una domanda fondamentale può aiutare: “Lavoro per vivere o vivo per lavorare?”. Se la risposta è la seconda, è saggio ripensare agli equilibri della propria vita. Allo spazio degli affetti e dell’amore, dello sport, delle passioni extralavoro, della ricerca di poesia e di bellezza. Allo spazio del sonno. A quanto abbiamo pian piano rubato alle nostre possibilità di recupero dell’energia, a quanto abbiamo bisogno di alcool per placare gli attacchi d’ansia – e di solitudine – serali, o a droghe eccitanti come la cocaina per mantenere i ritmi sempre più frenetici che le posizioni di successo al comando richiedono.
Il lavoro è un’amante dolcissima, fatta per sognare, se abbiamo trovato il giusto spazio e il giusto tempo, e la melodia con cui viverlo. Se la ricerca di eccellenza professionale non va in rotta di collisione con le molte cose che rendono la vita variata e appagante. Se siamo protagonisti di questo speciale rapporto d’amore, e non suoi schiavi. Se, come in una musica, sappiamo alternare pause ed accelerazioni, ritmi travolgenti e passaggi contemplativi. Se sappiamo accogliere il silenzio senza bisogno di riempirlo con un applauso, o un altro rumore.
Il lavoro è un’amante fuggitiva, che prima o poi ci lascerà. E che, andandosene, ci potrà lasciare nudi e smarriti, senza più identità, né ruolo, né relazioni professionali, né status. Prepararsi con saggezza al distacco, quando il tempo è maturo, ci salva dal naufragio dell’io che, per esempio, il pensionamento da posizioni manageriali troppo spesso comporta. Un naufragio in cui affondano tutti i doni che quest’amante appassionante e insidiosa aveva portato con sé, se per tempo non abbiamo ripreso saldamente in mano le redini delle nostre altre passioni, del senso della nostra vita e del nostro cuore.
Il lavoro (amato) è un’amante che non invecchia. Che sa cambiare con il mutare delle stagioni e del tuo tempo interiore. Diventa il baricentro della vita, la certezza su cui poggiare tutte le altre forze dell’esistenza. E’ un’amante/amica se il lavoro è scelto, è espressivo dei nostri talenti e delle nostre capacità, è capace di divertirci, di eccitarci, di farci sentire vivi, se incarna le nostre passioni. Ancor più se esprime la nostra vocazione più profonda.
Il lavoro (anche amato) è un’amante persecutoria. Tanto più quanto più l’abbiamo scelto cercando di soddisfare nel lavoro bisogni e desideri che altri ambiti della vita hanno lasciato scoperti. Come tutte le ossessioni, si nutre di riti e liturgie, che vanno dagli orari d’inizio, alla scansione del tempo, al controllo costante della posta elettronica, alla dipendenza sempiterna dal cellulare. Occupa piano piano spazi diversi della mente, corrompe il giudizio. E’ abilissimo nel trovare le motivazioni più persuasive per mantenere saldamente in mano le redini della mente e del cuore.
Gli americani parlano di “work-aholics”, drogati da lavoro. Con questo sottolineando che il rapporto ossessivo con il lavoro può assumere tutte le forme di una dipendenza patologica. Un tratto di personalità leggermente ossessivo può aiutare ad avere successo in lavori che richiedano capacità di organizzazione, metodologia rigorosa, controllo di qualità, analisi dei dati, dedizione per ore senza segni di cedimento mentale o fisico. Quando l’ossessione è marcata, quando senza lavoro la persona si sente svuotata di senso, è il caso di interrogarsi sul significato del proprio rapporto con il lavoro.
Una domanda fondamentale può aiutare: “Lavoro per vivere o vivo per lavorare?”. Se la risposta è la seconda, è saggio ripensare agli equilibri della propria vita. Allo spazio degli affetti e dell’amore, dello sport, delle passioni extralavoro, della ricerca di poesia e di bellezza. Allo spazio del sonno. A quanto abbiamo pian piano rubato alle nostre possibilità di recupero dell’energia, a quanto abbiamo bisogno di alcool per placare gli attacchi d’ansia – e di solitudine – serali, o a droghe eccitanti come la cocaina per mantenere i ritmi sempre più frenetici che le posizioni di successo al comando richiedono.
Il lavoro è un’amante dolcissima, fatta per sognare, se abbiamo trovato il giusto spazio e il giusto tempo, e la melodia con cui viverlo. Se la ricerca di eccellenza professionale non va in rotta di collisione con le molte cose che rendono la vita variata e appagante. Se siamo protagonisti di questo speciale rapporto d’amore, e non suoi schiavi. Se, come in una musica, sappiamo alternare pause ed accelerazioni, ritmi travolgenti e passaggi contemplativi. Se sappiamo accogliere il silenzio senza bisogno di riempirlo con un applauso, o un altro rumore.
Il lavoro è un’amante fuggitiva, che prima o poi ci lascerà. E che, andandosene, ci potrà lasciare nudi e smarriti, senza più identità, né ruolo, né relazioni professionali, né status. Prepararsi con saggezza al distacco, quando il tempo è maturo, ci salva dal naufragio dell’io che, per esempio, il pensionamento da posizioni manageriali troppo spesso comporta. Un naufragio in cui affondano tutti i doni che quest’amante appassionante e insidiosa aveva portato con sé, se per tempo non abbiamo ripreso saldamente in mano le redini delle nostre altre passioni, del senso della nostra vita e del nostro cuore.