Il dolore del lutto unisce o divide? Ci si aspetterebbe che la perdita di una persona amata – un figlio, un genitore, un fratello, un coniuge, un amico – unisca ancora di più coloro che restano. Spesso non è così. E non solo quando nella morte c’è, in qualche modo oscuro, una responsabilità, reale o solo percepita, di chi resta. La collera, per esempio, può esplodere verso il marito che, contro il parere della moglie, ha comprato al figlio una macchina troppo potente con cui il ragazzo si è schiantato. Oppure contro il parente o l’amico alla guida, quando la persona perduta era un passeggero.
Più frequentemente, tuttavia, è il percorso del lutto che tende a isolare, anche senza che vi siano accuse di colpe o di responsabilità. La depressione che consegue ad una perdita affettiva grave ci fa chiudere in noi stessi: diventiamo tetri, irritabili, scontrosi. L’atmosfera dentro il cuore e intorno a noi diventa cupa e pesante. Uno dei fattori che scava più solitudine attorno è la sensazione che gli altri, o l’altro, non provino lo stesso dolore.
E’ vero: ognuno di noi ha un modo speciale di amare, ma anche di vivere il dolore, che non è misurabile con i soli comportamenti esteriori. Soprattutto nella relazioni di sangue o nell’amore intenso, la visceralità del legame lo rende esclusivo sia quando lo si vive, sia quando la persona amata scompare, ancor più se improvvisamente. Il vuoto dell’assenza diventa intollerabile. E peggiora con il passare dei giorni: mancano la voce, il sorriso, la telefonata affettuosa, lo scherzo, la risata, anche la discussione accesa, e la pace dopo il litigio. La frattura che si crea nella vita interiore può sembrare irreparabile. Nulla sarà più come prima, almeno per quel rapporto d’amore e d’affetto. Nel percorso sano del lutto, alla fine si riesce a interiorizzare la persona amata, a sentirla vicina e viva dentro al cuore. L’assenza però continuerà a far male, tanto più e tanto più a lungo quanto più l’amore è stato forte e profondo.
La differenza nel modo di vivere ed esprimere il dolore del lutto – un dolore psicogeno per eccellenza – si nutre e si esaspera ancor più con i sensi di colpa, veri o presunti. Ci si tormenta per errori che spesso non sono tali, per la parola brusca che non c’è più tempo di rimediare, forse per non aver fatto o detto di più. Ognuno, nella famiglia, ha un suo modo di vivere ed esprimere il dolore. C’è chi apertamente piange e si dispera. Chi va tre volte al giorno in cimitero. Chi si butta sul lavoro. Chi cerca di dimenticare, inventandosi una frenesia di impegni, o buttandosi nei divertimenti sfrenati, o nell’alcool o nelle droghe. Uno dei fattori che isola di più, nel dolore, è la sensazione che il modo che ha l’altro di viverlo non sia quello giusto. Non sia abbastanza profondo, o sincero, o intenso. O, al contrario, che lo sia troppo, che duri troppo a lungo e in modo disturbante. Soprattutto oggi, in cui la morte ci inquieta per il solo fatto di esistere, è aumentata anche l’intolleranza all’espressione stessa del lutto. Si tende sempre più a negare che la morte esista o sia esistita, nell’urgenza che tutto riprenda e vada avanti, come se nulla fosse. Tutto questo aumenta il senso di solitudine in chi resta. Specie se non ha una fede in cui trovare conforto e in cui collocare quel filo ideale di affetti che consente di sperare e ritrovarsi.
Non è saggio negarsi il tempo del dolore, per riprendere la vita come se nulla fosse, come cicale smemorate. Questa negazione di un passaggio necessario a separarsi emotivamente dalla persona amata lascia nel cuore un cumulo di macerie che può diventare enorme e travolgerci, magari a distanza di anni, quando altre vulnerabilità e altre ferite ci hanno piegato il cuore. Ma è necessario sospendere il giudizio sul modo che gli altri hanno di vivere il lutto: quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg dei sentimenti interiori e ognuno ha il suo tempo e i suoi modi per attraversare il dolore. Amareggiarsi o addirittura aggredirsi, con la collera di chi scarica sui vivi la rabbia che in parte ha verso chi l’ha lasciato, ferisce a fondo e non porta da nessuna parte. Nello stesso tempo, è giusto prendersi un tempo interiore, specie se il dolore è lacerante perché l’affetto era del pari immenso. E può essere necessario ritirarsi dal mondo, per ascoltarsi in silenzio, per ridare al terremoto delle emozioni il tempo interiore minimo per decantarsi un po’, senza continui disturbi o interferenze dall’esterno. Non possiamo negarlo: la morte di una persona amata ci fa sentire ineludibilmente soli, perché ci confronta anche con la nostra morte. In questo momento di verità tagliente, luminosa e sola, non è saggio fuggire, né mentire, men che meno a stessi.
Più frequentemente, tuttavia, è il percorso del lutto che tende a isolare, anche senza che vi siano accuse di colpe o di responsabilità. La depressione che consegue ad una perdita affettiva grave ci fa chiudere in noi stessi: diventiamo tetri, irritabili, scontrosi. L’atmosfera dentro il cuore e intorno a noi diventa cupa e pesante. Uno dei fattori che scava più solitudine attorno è la sensazione che gli altri, o l’altro, non provino lo stesso dolore.
E’ vero: ognuno di noi ha un modo speciale di amare, ma anche di vivere il dolore, che non è misurabile con i soli comportamenti esteriori. Soprattutto nella relazioni di sangue o nell’amore intenso, la visceralità del legame lo rende esclusivo sia quando lo si vive, sia quando la persona amata scompare, ancor più se improvvisamente. Il vuoto dell’assenza diventa intollerabile. E peggiora con il passare dei giorni: mancano la voce, il sorriso, la telefonata affettuosa, lo scherzo, la risata, anche la discussione accesa, e la pace dopo il litigio. La frattura che si crea nella vita interiore può sembrare irreparabile. Nulla sarà più come prima, almeno per quel rapporto d’amore e d’affetto. Nel percorso sano del lutto, alla fine si riesce a interiorizzare la persona amata, a sentirla vicina e viva dentro al cuore. L’assenza però continuerà a far male, tanto più e tanto più a lungo quanto più l’amore è stato forte e profondo.
La differenza nel modo di vivere ed esprimere il dolore del lutto – un dolore psicogeno per eccellenza – si nutre e si esaspera ancor più con i sensi di colpa, veri o presunti. Ci si tormenta per errori che spesso non sono tali, per la parola brusca che non c’è più tempo di rimediare, forse per non aver fatto o detto di più. Ognuno, nella famiglia, ha un suo modo di vivere ed esprimere il dolore. C’è chi apertamente piange e si dispera. Chi va tre volte al giorno in cimitero. Chi si butta sul lavoro. Chi cerca di dimenticare, inventandosi una frenesia di impegni, o buttandosi nei divertimenti sfrenati, o nell’alcool o nelle droghe. Uno dei fattori che isola di più, nel dolore, è la sensazione che il modo che ha l’altro di viverlo non sia quello giusto. Non sia abbastanza profondo, o sincero, o intenso. O, al contrario, che lo sia troppo, che duri troppo a lungo e in modo disturbante. Soprattutto oggi, in cui la morte ci inquieta per il solo fatto di esistere, è aumentata anche l’intolleranza all’espressione stessa del lutto. Si tende sempre più a negare che la morte esista o sia esistita, nell’urgenza che tutto riprenda e vada avanti, come se nulla fosse. Tutto questo aumenta il senso di solitudine in chi resta. Specie se non ha una fede in cui trovare conforto e in cui collocare quel filo ideale di affetti che consente di sperare e ritrovarsi.
Non è saggio negarsi il tempo del dolore, per riprendere la vita come se nulla fosse, come cicale smemorate. Questa negazione di un passaggio necessario a separarsi emotivamente dalla persona amata lascia nel cuore un cumulo di macerie che può diventare enorme e travolgerci, magari a distanza di anni, quando altre vulnerabilità e altre ferite ci hanno piegato il cuore. Ma è necessario sospendere il giudizio sul modo che gli altri hanno di vivere il lutto: quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg dei sentimenti interiori e ognuno ha il suo tempo e i suoi modi per attraversare il dolore. Amareggiarsi o addirittura aggredirsi, con la collera di chi scarica sui vivi la rabbia che in parte ha verso chi l’ha lasciato, ferisce a fondo e non porta da nessuna parte. Nello stesso tempo, è giusto prendersi un tempo interiore, specie se il dolore è lacerante perché l’affetto era del pari immenso. E può essere necessario ritirarsi dal mondo, per ascoltarsi in silenzio, per ridare al terremoto delle emozioni il tempo interiore minimo per decantarsi un po’, senza continui disturbi o interferenze dall’esterno. Non possiamo negarlo: la morte di una persona amata ci fa sentire ineludibilmente soli, perché ci confronta anche con la nostra morte. In questo momento di verità tagliente, luminosa e sola, non è saggio fuggire, né mentire, men che meno a stessi.