Una tragedia di immani proporzioni uccide o rinforza la fede? Eventi che sradicano tutte le certezze dell’Io quale impatto possono avere sull’orientamento spirituale di ciascuno? In Occidente, la maggioranza dei laici e delle persone di debole fede ritengono che tragedie come lo tsunami siano la prova del sostanziale caos afinalistico che governa le esistenze di uomini e cose. Una bella inchiesta condotta da Sky News ieri, domenica 9, tra adepti di varie religioni, nell’India colpita dallo tsunami, ha mostrato un atteggiamento molto diverso.
Natura o cultura? Che cosa determina il senso religioso della vita, e la sua capacità di resistere alle avversità, o, addirittura, di integrarle in una visione che rinforza la fede?
Gli indù hanno un senso profondo del kharma, del destino costruito per ognuno di noi dalla condotta nelle vite precedenti. Interrogati, i religiosi buddisti non mostravano segni di angoscia o lutto. Ritengono infatti che le grandi come le piccole tragedie, dalla strage di migliaia di persone alla morte di una persona cara, si inscrivano in un fluire della vita che va oltre le piccole volontà, i piccoli mondi, quel crederci erroneamente al centro delle cose e dell’esistenza. Una tragedia come questa, diceva un religioso, nasce dalla distruzione che l’uomo sta già facendo del suo mondo. E’ un esempio concentrato dei tanti disastri ambientali che l’uomo fa già. A livello collettivo, le responsabilità si sommano: “Morte e distruzione radicale, riportano l’uomo alla radice delle cose: non lo allontanano dalla fede, lo riavvicinano. Lo riportano dentro al fluire del mondo”.
Dello stesso avviso anche il religioso musulmano. In India la comunità islamica è molto forte e molto seguita. “Il Corano ha già la risposta” dice. “L’uomo è al servizio di Dio. Anche la morte rientra in un disegno più grande. Eventi tragici danno ad ogni uomo il senso delle priorità che aveva perduto. Per molti del nostri fratelli, le tragedie rinforzano i legami nella comunità e la solidarietà verso quelli che hanno perso tutto. Per molti, la fede, una fede più forte, è tutto ciò che è rimasto. Ma è tutto quello che conta per ricominciare”.
Anche il sacerdote cattolico ha la stessa visione: “I fedeli partecipano alle funzioni più intensamente di prima. Si sente nella preghiera un credo più forte, un bisogno di fede che in molti si era indebolito. Sì, la mia esperienza, dopo il maremoto, è che le grandi tragedie collettive rinforzano la fede, la fanno ritornare il faro attorno a cui si riorganizza e ritrova speranza tutta la comunità”.
Come mai uno stesso evento rinforza la fede in taluni, e la scuote dalle fondamenta in altri? Che cosa la rende invulnerabile, o vulnerabilissima? L’intensità della convinzione religiosa, dirà qualcuno. Sì, ma questa intensità, come si crea? E’ solo questione di educazione, di come si è stati cresciuti, o c’è dell’altro?
Un filone di ricerca americano sostiene che la fede abbia una forte componente genetica. I geni che predispongono al sentimento religioso sarebbero infatti geni “vincenti” dal punto di vista evolutivo, perché regolano due comportamenti di grande significato per la sopravvivenza individuale e del gruppo: aumenterebbero sia il senso di appartenenza ad una comunità sia la capacità di rispetto delle regole all’interno della comunità stessa. In effetti, basta pensare a quanto l’adesione viscerale alla religione ebraica sia stato un fattore di coesione sociale e di sopravvivenza nel popolo forse più perseguitato della storia. Ed è evidente, anche nella nostra storia recente, quanto la laicizzazione della società abbia portato con sé non solo abissi di solitudine ma anche una “deriva delle norme” di incalcolabile portata distruttiva. Il non rispettare più i comandamenti, per limitarci alla prospettiva cristiana, non significa solo una non adesione religiosa, ma anche il venir meno di caposaldi che regolavano tutto il vivere civile.
Certo, religiosità e spiritualità non si indentificano necessariamente con una religione. In effetti, molti di coloro che forse il gene della spiritualità ce l’hanno comunque aderiscono oggi a forme di religiosità diversa. Nelle quali la solidarietà verso il prossimo, l’empatia, la generosità, il rispetto dei sentimenti e delle cose degli altri vengono sentiti e praticati come “giusti”, anche se non imposti da una data religione. Il movimento di solidarietà internazionale, laica, oltre che religiosa, attivato dalla tragedia asiatica, ne è la prova. Nella scelta di un comportamento etico potrebbe allora riemergere un tratto caratteriale, geneticamente predisposto, di spiritualità che si esprime anche attraverso la solidarietà sociale.
La fede è un dono, si dice. Lo sarebbe, un dono, anche se avesse una base genetica? Lo è, forse, anche per il misterioso arbitrio dei geni che ci arrivano in sorte. E forse anche per questo può resistere, prometeica, di fronte ad ogni prova, come il colore degli occhi, come un tratto fondante del carattere. Una fede che si nutre poi di due elementi culturali e comportamentali essenziali (per i cattolici, le altre due virtù teologali): la carità, di chi comprende e aiuta, e la speranza, senza la quale non c’è futuro oltre le piccole orbite dell’Io.
Natura o cultura? Che cosa determina il senso religioso della vita, e la sua capacità di resistere alle avversità, o, addirittura, di integrarle in una visione che rinforza la fede?
Gli indù hanno un senso profondo del kharma, del destino costruito per ognuno di noi dalla condotta nelle vite precedenti. Interrogati, i religiosi buddisti non mostravano segni di angoscia o lutto. Ritengono infatti che le grandi come le piccole tragedie, dalla strage di migliaia di persone alla morte di una persona cara, si inscrivano in un fluire della vita che va oltre le piccole volontà, i piccoli mondi, quel crederci erroneamente al centro delle cose e dell’esistenza. Una tragedia come questa, diceva un religioso, nasce dalla distruzione che l’uomo sta già facendo del suo mondo. E’ un esempio concentrato dei tanti disastri ambientali che l’uomo fa già. A livello collettivo, le responsabilità si sommano: “Morte e distruzione radicale, riportano l’uomo alla radice delle cose: non lo allontanano dalla fede, lo riavvicinano. Lo riportano dentro al fluire del mondo”.
Dello stesso avviso anche il religioso musulmano. In India la comunità islamica è molto forte e molto seguita. “Il Corano ha già la risposta” dice. “L’uomo è al servizio di Dio. Anche la morte rientra in un disegno più grande. Eventi tragici danno ad ogni uomo il senso delle priorità che aveva perduto. Per molti del nostri fratelli, le tragedie rinforzano i legami nella comunità e la solidarietà verso quelli che hanno perso tutto. Per molti, la fede, una fede più forte, è tutto ciò che è rimasto. Ma è tutto quello che conta per ricominciare”.
Anche il sacerdote cattolico ha la stessa visione: “I fedeli partecipano alle funzioni più intensamente di prima. Si sente nella preghiera un credo più forte, un bisogno di fede che in molti si era indebolito. Sì, la mia esperienza, dopo il maremoto, è che le grandi tragedie collettive rinforzano la fede, la fanno ritornare il faro attorno a cui si riorganizza e ritrova speranza tutta la comunità”.
Come mai uno stesso evento rinforza la fede in taluni, e la scuote dalle fondamenta in altri? Che cosa la rende invulnerabile, o vulnerabilissima? L’intensità della convinzione religiosa, dirà qualcuno. Sì, ma questa intensità, come si crea? E’ solo questione di educazione, di come si è stati cresciuti, o c’è dell’altro?
Un filone di ricerca americano sostiene che la fede abbia una forte componente genetica. I geni che predispongono al sentimento religioso sarebbero infatti geni “vincenti” dal punto di vista evolutivo, perché regolano due comportamenti di grande significato per la sopravvivenza individuale e del gruppo: aumenterebbero sia il senso di appartenenza ad una comunità sia la capacità di rispetto delle regole all’interno della comunità stessa. In effetti, basta pensare a quanto l’adesione viscerale alla religione ebraica sia stato un fattore di coesione sociale e di sopravvivenza nel popolo forse più perseguitato della storia. Ed è evidente, anche nella nostra storia recente, quanto la laicizzazione della società abbia portato con sé non solo abissi di solitudine ma anche una “deriva delle norme” di incalcolabile portata distruttiva. Il non rispettare più i comandamenti, per limitarci alla prospettiva cristiana, non significa solo una non adesione religiosa, ma anche il venir meno di caposaldi che regolavano tutto il vivere civile.
Certo, religiosità e spiritualità non si indentificano necessariamente con una religione. In effetti, molti di coloro che forse il gene della spiritualità ce l’hanno comunque aderiscono oggi a forme di religiosità diversa. Nelle quali la solidarietà verso il prossimo, l’empatia, la generosità, il rispetto dei sentimenti e delle cose degli altri vengono sentiti e praticati come “giusti”, anche se non imposti da una data religione. Il movimento di solidarietà internazionale, laica, oltre che religiosa, attivato dalla tragedia asiatica, ne è la prova. Nella scelta di un comportamento etico potrebbe allora riemergere un tratto caratteriale, geneticamente predisposto, di spiritualità che si esprime anche attraverso la solidarietà sociale.
La fede è un dono, si dice. Lo sarebbe, un dono, anche se avesse una base genetica? Lo è, forse, anche per il misterioso arbitrio dei geni che ci arrivano in sorte. E forse anche per questo può resistere, prometeica, di fronte ad ogni prova, come il colore degli occhi, come un tratto fondante del carattere. Una fede che si nutre poi di due elementi culturali e comportamentali essenziali (per i cattolici, le altre due virtù teologali): la carità, di chi comprende e aiuta, e la speranza, senza la quale non c’è futuro oltre le piccole orbite dell’Io.