Sappiamo affrontare le crisi della vita per coglierne il grande potenziale trasformativo? La pausa estiva può essere un tempo perfetto per fare la manutenzione della propria esistenza: la frenesia quotidiana rallenta e c’è tempo e spazio per farlo, soprattutto se si scelgono luoghi che consentano pause di solitudine e di silenzio. Pochi lo fanno: intanto i nodi irrisolti si accumulano, come topi inquieti nei sotterranei dell’anima.
A parole, lo sappiamo tutti. Ogni crisi – fisica, emotiva, affettiva o professionale – ha due volti, attenti a due diversi orizzonti: quello dell’opportunità e quello del rischio. L’opportunità è prendersi il tempo per mettersi in discussione e fare un intervento di “manutenzione straordinaria” della propria esistenza. Il rischio, in ogni crisi, è farsi prendere la mano dal furore rivoluzionario, per impulsività, per scarsa riflessione, per visioni parziale del problema che vorremmo risolvere. Oppure “lasciar fare”, agli altri o alla vita, ritrovandosi, dopo la crisi, più insoddisfatti e inquieti di prima. Qual è il punto? Quanti più nodi irrisolti si accumulano, quanti più topi ci inquietano nei sogni e negli incubi, tanto più diventano probabili gli stop improvvisi, gli eventi traumatici impegnativi. Succede quando il nostro corpo esausto o la psiche logorata contribuiscono a far precipitare gli eventi, lasciando emergere una malattia grave: autoimmune, infettiva, neurologica o tumorale. Oppure quando una distrazione alla guida o in casa, o un cinico destino, ci precipitano in un trauma fisico di grave entità.
Ogni stop inatteso, per un trauma grave di tipo sportivo o alla guida, o per un tumore, è uno shock per il corpo e per la psiche. Come affrontarlo al meglio? Il primo obiettivo, se la coscienza è integra, e se per carattere si è dei guerrieri, è uscirne più sani e solidi di prima. Tanto meglio se la motivazione e l’impegno personale sono valorizzati da cure adeguate, da medici competenti e dedicati, da fisioterapisti entusiasti di lavorare con e sul corpo, contribuendo spesso in modo decisivo a recuperi sorprendenti. Il secondo è ritrovare equilibri emotivi più soddisfacenti di prima. Certo, le variabili in gioco per farlo sono molte: dal livello culturale alla possibilità di accedere a cure mediche di qualità, dal livello economico all’età, dallo stato anagrafico alla possibilità di una rete di affetti, non solo familiari, presente e confortante.
Qual è il risultato più positivo? Poter dire a distanza di anni, guardando indietro: benedetto quel tumore, o quell’incidente, perché ho capito che cosa conta davvero nella mia vita. E quanta fuffa meritasse di essere ripulita via: meno frequentazioni, ma più significative. Lo stesso lavoro, ma fatto con un altro spirito. O un lavoro diverso, in cui esprimere meglio i propri talenti. Una solitudine scelta, intensa e luminosa, invece di una coppia logorata che procede per inerzia, senza più intimità vera. Uno strumento musicale per amico, e (ri)sentirsi molto più giovani, mentre si impara a suonare. Uno sport nuovo. Soprattutto, un altro tempo interiore, un altro passo, un’altra capacità di rapportarsi agli altri e al mondo. Con l’attenzione, più serena e vibrante, per assaporare ogni secondo, ora che si è nella seconda (o terza) vita, dopo il trauma o la malattia. Con un’onda positiva che può riflettersi anche su amici o familiari. Come se il modo di affrontare la malattia o il trauma grave, la consapevolezza condivisa, il diverso modo di porsi, potessero essere fecondi di trasformazioni positive anche per altre persone, se ci vogliono bene e vibrano in sintonia.
Il tempo del recupero, della convalescenza, della riflessione interiore stimolata dalla malattia, non è più un tempo “chrónos”, un tempo da maledire, perché sottratto al lavoro o alla vita, ma un tempo “kairós”, come dicevano i Greci antichi: il tempo della grazia, del cambiamento, il tempo dell’attesa e della luce, anche negli affetti. Prezioso per dare l’opportunità di capire. E anche di scusarsi. Mi ha detto un figlio, che ha sempre accompagnato la mamma alle visite: «Sono proprio contento che adesso la mamma sia guarita. Per lei, prima di tutto. Per quello che ho imparato, per come ha affrontato la malattia: una lezione grande, la più bella che mi ha dato. E perché ho avuto il tempo di scusarmi con lei, per non aver capito prima tante cose, e che il suo dolore era vero. Mia mamma è viva. E io sono un altro uomo… Grazie davvero».
A parole, lo sappiamo tutti. Ogni crisi – fisica, emotiva, affettiva o professionale – ha due volti, attenti a due diversi orizzonti: quello dell’opportunità e quello del rischio. L’opportunità è prendersi il tempo per mettersi in discussione e fare un intervento di “manutenzione straordinaria” della propria esistenza. Il rischio, in ogni crisi, è farsi prendere la mano dal furore rivoluzionario, per impulsività, per scarsa riflessione, per visioni parziale del problema che vorremmo risolvere. Oppure “lasciar fare”, agli altri o alla vita, ritrovandosi, dopo la crisi, più insoddisfatti e inquieti di prima. Qual è il punto? Quanti più nodi irrisolti si accumulano, quanti più topi ci inquietano nei sogni e negli incubi, tanto più diventano probabili gli stop improvvisi, gli eventi traumatici impegnativi. Succede quando il nostro corpo esausto o la psiche logorata contribuiscono a far precipitare gli eventi, lasciando emergere una malattia grave: autoimmune, infettiva, neurologica o tumorale. Oppure quando una distrazione alla guida o in casa, o un cinico destino, ci precipitano in un trauma fisico di grave entità.
Ogni stop inatteso, per un trauma grave di tipo sportivo o alla guida, o per un tumore, è uno shock per il corpo e per la psiche. Come affrontarlo al meglio? Il primo obiettivo, se la coscienza è integra, e se per carattere si è dei guerrieri, è uscirne più sani e solidi di prima. Tanto meglio se la motivazione e l’impegno personale sono valorizzati da cure adeguate, da medici competenti e dedicati, da fisioterapisti entusiasti di lavorare con e sul corpo, contribuendo spesso in modo decisivo a recuperi sorprendenti. Il secondo è ritrovare equilibri emotivi più soddisfacenti di prima. Certo, le variabili in gioco per farlo sono molte: dal livello culturale alla possibilità di accedere a cure mediche di qualità, dal livello economico all’età, dallo stato anagrafico alla possibilità di una rete di affetti, non solo familiari, presente e confortante.
Qual è il risultato più positivo? Poter dire a distanza di anni, guardando indietro: benedetto quel tumore, o quell’incidente, perché ho capito che cosa conta davvero nella mia vita. E quanta fuffa meritasse di essere ripulita via: meno frequentazioni, ma più significative. Lo stesso lavoro, ma fatto con un altro spirito. O un lavoro diverso, in cui esprimere meglio i propri talenti. Una solitudine scelta, intensa e luminosa, invece di una coppia logorata che procede per inerzia, senza più intimità vera. Uno strumento musicale per amico, e (ri)sentirsi molto più giovani, mentre si impara a suonare. Uno sport nuovo. Soprattutto, un altro tempo interiore, un altro passo, un’altra capacità di rapportarsi agli altri e al mondo. Con l’attenzione, più serena e vibrante, per assaporare ogni secondo, ora che si è nella seconda (o terza) vita, dopo il trauma o la malattia. Con un’onda positiva che può riflettersi anche su amici o familiari. Come se il modo di affrontare la malattia o il trauma grave, la consapevolezza condivisa, il diverso modo di porsi, potessero essere fecondi di trasformazioni positive anche per altre persone, se ci vogliono bene e vibrano in sintonia.
Il tempo del recupero, della convalescenza, della riflessione interiore stimolata dalla malattia, non è più un tempo “chrónos”, un tempo da maledire, perché sottratto al lavoro o alla vita, ma un tempo “kairós”, come dicevano i Greci antichi: il tempo della grazia, del cambiamento, il tempo dell’attesa e della luce, anche negli affetti. Prezioso per dare l’opportunità di capire. E anche di scusarsi. Mi ha detto un figlio, che ha sempre accompagnato la mamma alle visite: «Sono proprio contento che adesso la mamma sia guarita. Per lei, prima di tutto. Per quello che ho imparato, per come ha affrontato la malattia: una lezione grande, la più bella che mi ha dato. E perché ho avuto il tempo di scusarmi con lei, per non aver capito prima tante cose, e che il suo dolore era vero. Mia mamma è viva. E io sono un altro uomo… Grazie davvero».
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