La catastrofe – nel senso etimologico – di rivoluzione completa dall’alto in basso, è proprio la visibilità indipendente dal merito. E se per gli Antichi il binomio perfetto era “duce virtute, comite fortuna” (ti guidi il valore personale, ti accompagni, e ti accompagnerà, la fortuna), oggi si punta sulla visibilità, non più sulla competenza e il valore personale. Questi ultimi sono il frutto di anni di impegno, studio, disciplina, autocritica, esperienza sul campo: troppa fatica, per i più. Per far parlare di sé, quando non ci siano competenze o meriti migliori, si punta oggi su due strategie: primo, il selfie con qualcuno che conti (magari anche per valore) o che comunque sia già molto visibile di suo. Come se questo irradiasse un merito ex se, un significato per vicinanza, per vibrazione, per (improbabile) affinità e assonanza: «Ero vicino a lui/lei, quindi esisto e valgo». Secondo, puntando (“selfiando”) sull’intimo, sull’esibizione compiaciuta del rapporto o del dopo l’amore, sulla trasgressione vista come gioco per far parlare di sé, credendo, con questo, di valere e di esistere. Non è più importante quello che sento nel corpo, nel cuore, nell’anima, ma quello che mostro, che esibisco, e tanto più sono esplicita/o tanto più stuzzicherò commenti, pettegolezzi, sguardi e desideri.
Il selfie è di per sé negativo? No. È la motivazione che qualifica i nostri comportamenti, anche digitali. Molti selfie hanno un puro valore affettivo, per fermare un momento felice, un’emozione più forte, un incantesimo, una vicinanza a lungo sognata e desiderata, da condividere con le poche persone per le quali quell’immagine può essere bella, emozionante, dolce, tenera, o anche motivo d’orgoglio. Bene, benissimo: se la motivazione è espressiva di un desiderio di condividere un’emozione sentita, un affetto, un momento di gioia, il selfie di oggi è alleato e in linea con la foto ricordo di ieri, in una narrativa, in un racconto personale della vita che può regalarci, a distanza, un nuovo tuffo al cuore, una rinnovata onda di felicità nel rivedere l’istantanea di un momento felice.
Il selfie può invece essere uno strumento sottilmente e insidiosamente autodistruttivo quando è figlio del bisogno di far parlare di sé perché, in fondo al cuore, sappiamo, sentiamo o temiamo di valere poco. Autodistruttivo? Potenzialmente sì, a breve e lungo termine. A breve, perché il rapporto sessuale, da fatto privatissimo, intimo, diventa pubblico. Così vengono profanati il mistero, il segreto, l’esclusività dell’amore. Il prezzo, altissimo, è la banalizzazione di sé, proprio in quell’aspetto che dovrebbe essere più privato: l’intimità d’amore. La banalizzazione non è mai sola. Prevedibilità e noia la seguono a ruota. Tutto è già stato visto, esibito, forse sporcato con commenti e sguardi. L’usura e la morte del desiderio, in quella coppia che si è esibita durante o dopo l’amore, sono in agguato. Uno, nessuno, centomila, direbbe Pirandello. Tutti uguali, alla fine, questi corpi esibiti, dopo una minima eccitazione di sguardo. Ma l’onda potenzialmente negativa non finisce lì. Quell’istante d’amore o del dopo l’amore fermato in un selfie diventa un istante perpetuo. La memoria digitale è immortale. Può riemergere, disturbante, quando si è avvolti in un altro amore, che magari ci è più molto caro. Quei selfie di altre intimità sono lì, e riemergono a disturbare l’esclusività di un amore che magari non vorremmo esibire, proprio perché ci prende il cuore e lo sentiamo unico. E lo inquietano con una promiscuità – di fatto – resa pubblica e stratificata nel tempo. Non ultimo, quell’intimità privatissima messa in pasto al mondo parlerà di noi anche quando cercheremo un lavoro. E’ difficile restare professionali quando sull’app compare la nostra immagine nuda. La riservatezza varrà oro.
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