Il dolore cronico è questione seria: lo sa bene chi ne soffre, spesso poco compreso anche dai familiari, oltre che da noi medici. Il dolore è un meccanismo biologico evoluto e molto raffinato, il cui compito è far sapere al cervello che cosa stia danneggiando il corpo, affinché possa prendere rapidamente le contromisure appropriate. Cosa più semplice se la causa è un agente esterno, un trauma, un taglio, una caduta; molto meno se il dolore è viscerale o comunque origina da lesioni interne, siano esse infettive, dismetaboliche, infiammatorie, neurologiche e così via.
Oltre un miliardo e mezzo di persone nel mondo soffre di dolore cronico. In Europa si stima ne soffra almeno il 20% della popolazione adulta, con costi enormi, sia personali, sia per il sistema sanitario. Il numero delle persone con dolore conico è in aumento, per l’incremento della popolazione anziana; per l’aumento di obesità e malattie dismetaboliche associate, tra cui l’insidiosissimo diabete, ancora poco apprezzato nella sua pericolosità distruttiva, anche sul fronte del dolore cronico; per il miglioramento delle terapie per il cancro, che possono tuttavia lasciare sintomi dolorosi come le neuropatie periferiche dopo chemioterapia; e per le sopravvivenze dopo incidenti gravi, stradali e non solo. Il dolore cronico mina ogni aspetto della vita, tanto più quanto il suo esordio è precoce. Ecco perché comprendere le possibili basi genetiche della sensibilità al dolore può offrire nuovi orizzonti terapeutici.
La professoressa Sabrina Giglio, brillante genetista dell’Università di Cagliari, che mi ha illuminata sul tema, sottolinea tre aspetti di frontiera: 1) le differenze genetiche nella struttura e nella sequenza del DNA, che rappresentano fino al 70% delle differenze individuali allo stimolo dolore, nella suscettibilità alle condizioni che causano dolore cronico, fra cui, per esempio, l’endometriosi, e nella risposta alle terapie antalgiche; 2) la resistenza al dolore, per cui i recettori del dolore (“nocicettori”) o sono numericamente meno sviluppati in alcuni soggetti rispetto ad altri, o ci sono ma rispondono meno, a parità di stimoli; 3) la modulazione delle risposte fisiche, emotive e cognitive al dolore stesso, esperienza complessa che va ben oltre la semplice intensità della sensazione dolorosa: per esempio, modulando la vulnerabilità all’ansia e alla paura, grandi intensificatori della percezione del dolore. Queste emozioni fondamentali facilitano il passaggio dei segnali del dolore tra un neurone e il successivo lungo le vie del midollo spinale e nel sistema nervoso centrale. Possiamo immaginare le vie del dolore più arcaiche (“tratto spino talamico”) come una strada con tanti semafori (“vie polisinaptiche”): ansia e paura, ma anche alcune caratteristiche genetiche, li attivano sul verde, facilitando il passaggio dei segnali. Di converso, l’avere un’alta soglia del dolore, su base genetica, ma anche l’avere coltivato meditazione e altre forme di autocontrollo con riduzione dell’ansia, e persino l’attività fisica quotidiana, meglio mattutina, volgono i semafori midollari al rosso, riducendo il passaggio dei segnali dolorosi.
Fra i geni meglio correlati al dolore ci sono quelli che codificano gli enzimi (catecol-O-metiltransferasi, COMT e cicloidrolasi GTP 1) che degradano adrenalina e noradrenalina, i neurotrasmettitori che segnalano allarme e pericolo. Se COMT e GTP1 funzionano meno, questi segnalatori rimettono i semafori verdi e causano maggiore sensibilità al dolore.
Queste e altre varianti potrebbero essere implicate nella fibromialgia, nell’endometriosi, nelle neuropatie periferiche, nel dolore post-operatorio e anche nel dolore da cancro. Ricerche quindi appassionanti, preliminari all’individuazione di terapie geniche che potrebbero agire in modo mirato e selettivo proprio sui meccanismi cardinali del dolore cronico, attenuandolo. Una grande speranza.
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