Aumentano i single e i soli, soprattutto nel mondo ad alto reddito. Aumentano le solitudini, al plurale: perché diverse ne sono le cause, i modi di viverle, di abitarle, di sceglierle o subirle. Si può essere anagraficamente soli e sentirsi felici, e sentirsi ferocemente soli in coppia, in famiglia, perfino tra gli amici. Come abitare la solitudine, perché ci sia cara e amica? «Anche nella solitudine, non dire e non fare nulla di biasimevole. Impara a rispettare te stesso molto più davanti alla tua coscienza che davanti agli altri», sosteneva Democrito, filosofo greco. Acutamente, individuava in questa misura dell’essere la vulnerabilità e lo stimolo a fare della propria coscienza il testimone ultimo di un comportamento retto. Che non ha più bisogno del controllo sociale per un pensare e un agire eticamente impeccabili, che ci lascino sereni, con una luce lieta in fondo al cuore.
Come abitare bene la propria solitudine, dunque? Ne parla in modo profondo e fresco, confortante e stimolante, un bel libro: “Solitudine: deserto o giardino?”, di Enzo Bianchi, Christian Bobin e Xavier Lacroix (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2012). «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine», scriveva lapidariamente Victor Hugo. Eppure proprio la solitudine può essere la misura della scoperta di sé, della gioia, del piacere di vivere, della leggerezza interiore, dell’equilibrio. Abitare (bene) la propria solitudine è la misura perfetta per stare poi molto meglio con gli altri e nel mondo. Potremmo dire che in questa parola, di cui cogliamo in genere l’aspetto negativo, che evoca pena e compassione, ci sia invece la potenzialità per tutta la gamma delle emozioni umane, dalle più disperate – di cui sono specchio e cantori i poeti – alle più costruttive, rigeneranti, creative e spirituali, di cui sono amanti gli asceti, i mistici, e coloro che cercano con più coraggio e passione il senso della vita. Solitudine triste e disperata, quando è subita per un abbandono, per la fine di un amore, per una morte. C’è la solitudine di chi si richiude in casa, per depressione o per vecchiaia o tutt’e due, come se fosse agli arresti domiciliari: e la vita diventa un affacciarsi alla finestra, spettatore frustrato della vita che passa oltre il vetro. E c’è la solitudine di chi sta sempre coattivamente insieme agli altri, per non vederla, travolto dalla bulimia di incontri, riunioni, inviti ricercati affannosamente: una corsa al divertimento che in verità nasconde “solitudini desolate e ululanti”, come quelle del deserto.
Il lato oscuro e doloroso della solitudine negativa ci è familiare: tutti l’abbiamo in diversa misura conosciuto e abitato, tutti ne conosciamo il sapore amaro. Ma esistono solitudini feconde, che ci siano amiche? A sondare questo orizzonte si impegna lo sguardo acuto di Enzo Bianchi, Priore di Bose. Che suggerisce alcuni passi essenziali: avere il coraggio di ritirarsi, di allontanarsi dal quotidiano, dai propri legami, almeno di tanto in tanto. Porre un freno al sistema planetario di pensieri e impegni che ci girano attorno vorticosamente, ogni giorno. Fermarsi per ascoltarsi e ascoltare. Così si rientra in se stessi, si abita con se stessi. In compagnia del nostro corpo, aggiungo io, che è il nostro migliore amico, e del nostro cuore, dove abitano le emozioni, è possibile contemplare il mondo in silenzio. Provare gioia. Osservare. Sintonizzarsi con la bellezza e il dolore. Commuoversi. Sentire il gusto di essere intensamente vivi. Compatti e vibranti. Più si sa stare bene da soli, più si assapora il piacere di ritrovarsi poi con gli altri. Un abbraccio, una carezza, una parola gentile, un bacio, diventano musica. Diventa sospeso il nostro tempo, ma anche quello di chi ci incontra, perché diversa è la vibrazione, l’intensità, la capacità di ascolto e di emozione. Non più amori vampiri e predatori, ossessivi e distruttivi. Amori intensi e leggeri, capaci di intimità profonde ma anche di lasciarti andare via, se questa è la tua scelta e il tuo destino.
Come abitare bene la propria solitudine, dunque? Ne parla in modo profondo e fresco, confortante e stimolante, un bel libro: “Solitudine: deserto o giardino?”, di Enzo Bianchi, Christian Bobin e Xavier Lacroix (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2012). «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine», scriveva lapidariamente Victor Hugo. Eppure proprio la solitudine può essere la misura della scoperta di sé, della gioia, del piacere di vivere, della leggerezza interiore, dell’equilibrio. Abitare (bene) la propria solitudine è la misura perfetta per stare poi molto meglio con gli altri e nel mondo. Potremmo dire che in questa parola, di cui cogliamo in genere l’aspetto negativo, che evoca pena e compassione, ci sia invece la potenzialità per tutta la gamma delle emozioni umane, dalle più disperate – di cui sono specchio e cantori i poeti – alle più costruttive, rigeneranti, creative e spirituali, di cui sono amanti gli asceti, i mistici, e coloro che cercano con più coraggio e passione il senso della vita. Solitudine triste e disperata, quando è subita per un abbandono, per la fine di un amore, per una morte. C’è la solitudine di chi si richiude in casa, per depressione o per vecchiaia o tutt’e due, come se fosse agli arresti domiciliari: e la vita diventa un affacciarsi alla finestra, spettatore frustrato della vita che passa oltre il vetro. E c’è la solitudine di chi sta sempre coattivamente insieme agli altri, per non vederla, travolto dalla bulimia di incontri, riunioni, inviti ricercati affannosamente: una corsa al divertimento che in verità nasconde “solitudini desolate e ululanti”, come quelle del deserto.
Il lato oscuro e doloroso della solitudine negativa ci è familiare: tutti l’abbiamo in diversa misura conosciuto e abitato, tutti ne conosciamo il sapore amaro. Ma esistono solitudini feconde, che ci siano amiche? A sondare questo orizzonte si impegna lo sguardo acuto di Enzo Bianchi, Priore di Bose. Che suggerisce alcuni passi essenziali: avere il coraggio di ritirarsi, di allontanarsi dal quotidiano, dai propri legami, almeno di tanto in tanto. Porre un freno al sistema planetario di pensieri e impegni che ci girano attorno vorticosamente, ogni giorno. Fermarsi per ascoltarsi e ascoltare. Così si rientra in se stessi, si abita con se stessi. In compagnia del nostro corpo, aggiungo io, che è il nostro migliore amico, e del nostro cuore, dove abitano le emozioni, è possibile contemplare il mondo in silenzio. Provare gioia. Osservare. Sintonizzarsi con la bellezza e il dolore. Commuoversi. Sentire il gusto di essere intensamente vivi. Compatti e vibranti. Più si sa stare bene da soli, più si assapora il piacere di ritrovarsi poi con gli altri. Un abbraccio, una carezza, una parola gentile, un bacio, diventano musica. Diventa sospeso il nostro tempo, ma anche quello di chi ci incontra, perché diversa è la vibrazione, l’intensità, la capacità di ascolto e di emozione. Non più amori vampiri e predatori, ossessivi e distruttivi. Amori intensi e leggeri, capaci di intimità profonde ma anche di lasciarti andare via, se questa è la tua scelta e il tuo destino.