Un’incursione in libreria ed ecco il libro che tra mille mi colpisce subito l’immaginario. Forse perché, per i misteriosi percorsi della memoria, mi richiama alla mente un altro libro, “Lettere dal fronte”, regalatomi da mio papà quando avevo forse 11 o 12 anni, dicendomi: “Leggilo bene, così capirai che cos’è davvero la guerra!”. Anche se era stato ufficiale degli alpini, e con onore, delle guerre pensava che fossero uno spreco folle di giovani vite, e uno strazio immenso. E aveva scelto quel piccolo volume, che ancora ricordo, per farmi capire quello che nessun libro di storia mi avrebbe insegnato mai.
Dopo tanti anni, ecco allora un altro testo che mi conquista fin dalle prime pagine: “I racconti di guerra”, di Mario Rigoni Stern (Einaudi Editore). Ogni racconto, un frammento di storia vera e di miopia politica, di solitudini spaventose di soldati mandati al macello da governanti arroganti e indifferenti alla loro morte: “montanari traditi da una patria matrigna e mandati a morire”. 650.000 morti, 600.000 dispersi o prigionieri e 947.000 feriti nella prima guerra mondiale; 154.172 soldati morti o dispersi tra Grecia e Albania; e molti di più nella suicida campagna di Russia, oltre a tutti i soldati morti in Italia. Milioni di famiglia devastate, di genitori senza più figli, di vedove, di orfani. Persone mutilate, anche anni dopo la fine della guerra, quando una bomba rimasta inesplosa nei campi faceva nuove vittime tra i civili.
Nei racconti, ecco la prima guerra mondiale, e le drammatiche battaglie sui nostri monti veneti. Non solo la battaglia del Piave, la strage dell’Ortigara o Caporetto, vissute dagli alpini e non attraverso i freddi racconti dei libri di testo, ma il naufragio dei contadini, la disperazione dei profughi, le pene e le morti di tanta gente inerme: le tante dimenticate tragedie dei nostri avi, in questa terra veneta. E le lentezze drammatiche della ricostruzione, per esempio, di Asiago e dei molti paesi dei Sette Comuni, quasi completamente rasi al suolo. Ci si trova in trincea con i soldati: fino a sentire lo stesso freddo, la stessa disperazione, la frenesia della guerra con le sue morti assurde e le sue stragi di vite senza più futuro. E il coraggio disperato, perché almeno nella prima guerra i soldati difendevano al loro terra. Ma quando iniziano i racconti della seconda guerra mondiale, che Rigoni Stern ha vissuto in prima persona, la follia di una guerra scatenata “per conquista”, contro popoli che non ci erano nemici, esplode con tutta la sua evidenza. L’assurdità della guerra in Albania e della campagna di Grecia, con equipaggiamento del tutto inadeguato, con poveri mezzi e stivaletti da libera uscita. Un Comando generale indifferente alle ingenti perdite di decine di migliaia di uomini, in battaglie senza senso. E la lotta quotidiana per sopravvivere non solo contro gli avversari ma anche contro le insidie di un terreno di guerra fatto di montagne aspre o steppe desolate, di freddo tagliente, di pidocchi onnipresenti, con scarsi rifornimenti e solitudini senza rimedio. Lo sgomento di contarsi ogni giorno, sempre meno, fino a restare in due o tre di ogni battaglione. Nomi e cognomi di soldati valorosi, come il capitano Giuseppe Lamberti, che rischia la corte marziale perché “voleva conoscere bene il terreno” e aveva chiesto una proroga di una notte prima di lanciare un attacco che per i suoi uomini poteva diventare un macello. Uomini sfortunati, come i tanti morti di assideramento in una ritirata senza più senso, o il Caporalino: “che era timido, parlava poco, aveva paura, non era idoneo a fare l’ufficiale, e leggeva poesie”. Oppure generosi, come l’alpino Romedio, che con la sua mula, la Brenta, e la slitta, riesce a portare in salvo per centinaia di chilometri nove feriti, durante la tragica ritirata di Russia. Leggendo, non cresce solo un diverso senso della nostra storia recente, ma un rispetto profondo per gli uomini che la guerra l’anno fatta davvero, e che oggi sono solo i numeri di una sconfitta o, al più, nomi ricordati in qualche famiglia più affettuosa. Si entra nella disperazione di una marcia di ritirata che non sembrava aver più fine: “Loro camminano in fretta, e io, zoppicando, li seguo a distanza, come un cane senza padrone, ma non ancora maturo per fare il randagio”, quando Rigoni racconta della ritirata di Russia, vissuta in prima persona, con un piede semicongelato dal freddo. Ma si tocca anche la qualità di rapporti umani tra questi ragazzi ventenni mandati allo sbaraglio, ma di solide basi morali, e la popolazione greca o russa, invasa. Sono molti i racconti dove i nostri soldati in ritirata vengono salvati dalla povera gente russa, in una notte al tepore di un’isba, fuori dalla tormenta, dopo una zuppa di cavolo, che consente di riprendere le forze e limitare i danni da congelamento. Alpini rispettati per la loro umanità dai russi, come nel tenero racconto della vecchia Magda in “Tre patate lesse”, e, come prima, dai greci. E diversamente dai tedeschi, che obbedivano a ordini spietati, come le disposizioni del feldmaresciallo Keitel della Wehrmacht: “In queste nostre azioni dobbiamo tenere presente che la vita umana in questi paesi non vale assolutamente nulla, e che l’azione intimidatoria è possibile solo se mettiamo in pratica una ferocia inusitata”.
E’ giusto e doveroso, ancor più, ricordare l’umanità dei nostri soldati, anche nei paesi invasi. Leggendo questi racconti di guerra m’è tornato in mente che nel 1980, durante un viaggio in Grecia, arrivammo in un ristorantino di un piccolo paese, in riva al mare. Dietro, i campi coltivati a grano. Quando il proprietario sentì che eravamo italiani, ci chiese, con un accento stentato: “Di dove siete?”. “Della zona di Treviso...”. “Ah, Treviso, amici, amici!... Conoscete Bepi e Gino..., di Montebelluna?” Combinazione, erano due uomini di famiglie che abitavano nella nostra stessa strada. “Amici, amici veri! Loro soldati, noi invasi. Ma invece di farci del male, ci aiutavano a mietere il grano... perché al mondo siamo tutti paesani, come diceva il Bepi... Ero piccolo, ma me li ricordo bene, gli italiani”. E, come segno di gratitudine, volle darci due bottiglie di vino, che riportammo ai destinatari come fosse oro. I due ex alpini erano morti, ma per lo loro famiglie quel pensiero da lontano fu un’eredità morale preziosa e rara. Un dono e un esempio vivi, anche dopo la morte.
Oltre la gelida retorica che riempie tanti libri di scuola, è questa la storia vera da far conoscere ai nostri ragazzi. Molti di questi racconti dovrebbero diventare letture scolastiche raccomandate. O far parte dei libri che ogni famiglia dovrebbe tenere nelle sempre più rare biblioteche di casa. Se anche solo il dieci per cento dei nostri ragazzi si appassionasse a questo diverso modo di leggere la storia, e maturasse una diversa sensibilità, umana ma anche politica, Rigoni Stern non avrebbe scritto invano. Per non dimenticare. E per assaporare un diverso senso della vita, da non sprecare mai.
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