Come mai in Italia, nonostante la crisi economica internazionale, non si respira l’aria da psicodramma economico presente in altri Paesi? In Gran Bretagna, come negli Stati Uniti, è tangibile la sensazione diffusa di essere alla fine di un’epoca di abbondanza, di credito facile e di consumi molto al di sopra del bisogno; di essere, addirittura, sull’orlo di un baratro economico e occupazionale. Da noi, nonostante la gridata coartazione degli acquisti natalizi (dal 4 al 20%, a seconda delle fonti...) tutto sommato l’atmosfera è ragionevolmente serena e, soprattutto, rapidamente adattativa. Probabilmente per ragioni anche genetiche, da sopravvissuti millenari a guerre, invasioni, rapide fortune e crolli vertiginosi, povertà laceranti e emigrazioni di massa fino ancora al recente passato, gli italiani stanno mostrando ancora una volta una capacità adattativa pragmatica, che tira fuori il meglio di sé nel momento del bisogno. Alla fine di un anno economicamente difficile, è confortante vedere come gli italiani si stiano adeguando costruttivamente alla crisi, con l’ottimo aiuto del 42° rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, appena uscito (Francoangeli, 2008).
Formichine concrete e prudenti, ancora affezionate all’uso dei contanti, gli italiani sono meno vulnerabili a indebitarsi a causa del seduttivo meccanismo delle carte di credito: da noi, per gli acquisti al dettaglio, le usa il 10% dei cittadini, contro il 31% della media europea. “Compro in proporzione ai soldi che ho in tasca” è già un modo saggio per autoproteggersi dai buchi neri che si aprono sul conto quando si compri sull’onda del desiderio (e dell’apparente capacità di acquisto della carta) e non delle effettive possibilità. E anche se le carte hanno un ovvio tetto proporzionale alla liquidità e/o al conto in banca, resta il fatto che anche dal punto di vista psicologico la quantificazione visiva e mentale della spesa, fatta con il contante, dà una percezione molto più immediata del valore reale dell’esborso, rispetto a una firmetta su un ingannevolmente innocente pezzetto di carta.
Formichine intuitive, gli italiani già dall’inizio di questo millennio erano andati in fuga dal risparmio gestito. Avevano così già cominciato a serrare i ranghi ben prima dell’esplosione della crisi con il fallimento di alcune grandi banche americane. Per esempio, solo l’1,9% (sic!) credeva e crede che la collocazione migliore dei propri soldi sia in azioni o obbligazioni. La maggioranza preferisce la liquidità, in veri e concretissimi contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o in una buona occasione sul mercato immobiliare (22,2%). E se proprio restano un po’ di soldi da investire, meglio gli inossidabili titoli di Stato (16,4%). Nella sostanza, solo una minoranza della nostra popolazione ha subito il contraccolpo del crack azionario internazionale: pragmatismo, tradizione millenaria al piccolo risparmio autogestito, e atavica diffidenza verso le rapide fortune, azionarie incluse, e ai loro colpi di vento, hanno protetto la gran parte di noi da un’onda d’urto altrimenti pesantissima.
Formichine edoniste, gli italiani hanno messo in atto spontaneamente, e naturalmente, una strategia adattativa dei consumi estremamente interessante, anche dal punto di vista psicologico e comportamentale. La parola d’ordine, che ciascuno sembra aver messo in atto come se un tam-tam silenzioso si fosse diffuso nel Paese, è: “mantenere l’essenziale per il proprio benessere, e tagliare il resto”. Un elogio della sobrietà, quasi, che ciascuno poi declina in base alle priorità personali. Nell’insieme, una virata psicologica che, a livello di grandi numeri, disegna una mappa precisa, soprattutto quando si considerino le strategie messe in atto per realizzarla. Naturalmente, su uno scenario variegato: a un estremo, gli “indenni”, quei 5,5 milioni di italiani che, grazie a redditi buoni e stabili, utilizzeranno comunque gli stessi beni, senza riduzioni. Al lato opposto, i più colpiti, quegli 880.000 italiani che dovranno tagliare robustamente i propri consumi: si tratta per lo più di anziani, di coppie a basso reddito con due figli, e persone con bassa scolarità. Nel mezzo, la grande massa dei funamboli dell’acquisto al servizio del benessere personale, che resta per gli italiani una priorità cromosomica. La dolce vita, come icona del vivere italico, anche in tempi in cui vivere era ben più difficile e faticoso di adesso. Ed ecco le strategie adattative: arbitri intelligenti di redditi e consumi, gli italiani si sono spostati in massa verso il “downgrading”, modo apparentemente più elegante, come tutte le espressioni mutuate dal mondo anglosassone, per dire il ricorso massiccio ai saldi e alle promozioni, praticate da ben il 68% degli italiani (fino al 77% dei più giovani), con un lodevole recupero di potere d’acquisto delle famiglie pari a 1,5 punti percentuali rispetto all’inflazione ufficiale. Dopo il furore per le cose firmate, ecco un’altra inversione critica risparmiosa : il 54% si è spostato verso acquisti senza marchio, con una riduzione secca della spesa di ben il 20-25% . E non è poco davvero. Millenariamente appassionati di mercati e mercatini, eccoli in massa di nuovo ai mercati quotidiani o settimanali, di paese o di quartiere. Oppure ad acquistare direttamente dai coltivatori (i farmer market, sempre per dirla bilingue) con un doppio guadagno: del 30% per chi acquista, e forse di più per chi vende, evitando i paurosi rincari di tutte le intermediazioni che dall’agricoltore al consumatore fanno altrimenti lievitare i prezzi. Per non parlare del guadagno in salute, grazie all’indubbia freschezza di frutta e verdura acquistati letteralmente sul campo. Grande migrazione anche verso gli ipermercati, e le stock house, le aree di vendita di prodotti di marca a basso costo, che hanno sedotto stabilmente il 33,8% degli italiani.
Quasi miracolosamente, nella nuova sobrietà c’è anche una maggiore attenzione a ridurre i consumi di acqua e di energia elettrica, praticata dall’87% degli italiani. E chissà che questo non porti a un miglior rispetto dell’ambiente, che ancora oltraggiamo oltremisura.
Formichine salutiste, i nostri connazionali tendono a ridurre le quantità ma a salvare la qualità, almeno nel cibo e nel tempo per prepararlo: vanno alla grande, nonostante la crisi, i prodotti “bio”, perché la salute resta una priorità; quelli “time saving”, perché anche il tempo è un lusso, con in testa le insalate lavate e tagliate (per cui impazziscono di gioia le donne che lavorano, ma anche tutti i single), i primi piatti surgelati e i buoni vini od oli di qualità (Doc, Docg, Dop e così via).
Cosa resta irrinunciabile per gli italiani, nel senso di beni o servizi per i quali continueranno a spendere nella stessa misura (guadagni permettendo)? In testa le spese per le cure mediche private (85,8%), le attività extrascolastiche dei figli (74,7%), motociclette (59,8%), anche per sopravvivere nel caos urbano riducendo i consumi e i tempi, e telefono cellulare (58,7%). Ma anche almeno una settimana di vacanze all’anno (53,7%), automobili (50%), diete di qualità (47,9%), sport e fitness (47,8%): tutte percentuali calcolate sul totale degli utilizzatori effettivi attuali del bene o del servizio. Tutto sommato, una mappa che mostra plasticità mentale e capacità di ridistribuire i consumi per salvare quello che ciascuno considera prioritario, in un modo consolante quando lo si veda condiviso dalla maggioranza di amici e conoscenti. Con il taglio di molto inessenziale (a cominciare dalla manìa per i marchi, per oggetti o vestiario che comunque hanno perso molto dello smalto sartoriale antico), è allora possibile continuare a sentirsi ancora bene, nonostante la crisi. Con consumi più funzionali e qualche sfizio, per tenersi un po’ di sana dolcezza nella vita, da formichine lungimiranti e, nelle emergenze, persino giudiziose.
Formichine concrete e prudenti, ancora affezionate all’uso dei contanti, gli italiani sono meno vulnerabili a indebitarsi a causa del seduttivo meccanismo delle carte di credito: da noi, per gli acquisti al dettaglio, le usa il 10% dei cittadini, contro il 31% della media europea. “Compro in proporzione ai soldi che ho in tasca” è già un modo saggio per autoproteggersi dai buchi neri che si aprono sul conto quando si compri sull’onda del desiderio (e dell’apparente capacità di acquisto della carta) e non delle effettive possibilità. E anche se le carte hanno un ovvio tetto proporzionale alla liquidità e/o al conto in banca, resta il fatto che anche dal punto di vista psicologico la quantificazione visiva e mentale della spesa, fatta con il contante, dà una percezione molto più immediata del valore reale dell’esborso, rispetto a una firmetta su un ingannevolmente innocente pezzetto di carta.
Formichine intuitive, gli italiani già dall’inizio di questo millennio erano andati in fuga dal risparmio gestito. Avevano così già cominciato a serrare i ranghi ben prima dell’esplosione della crisi con il fallimento di alcune grandi banche americane. Per esempio, solo l’1,9% (sic!) credeva e crede che la collocazione migliore dei propri soldi sia in azioni o obbligazioni. La maggioranza preferisce la liquidità, in veri e concretissimi contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o in una buona occasione sul mercato immobiliare (22,2%). E se proprio restano un po’ di soldi da investire, meglio gli inossidabili titoli di Stato (16,4%). Nella sostanza, solo una minoranza della nostra popolazione ha subito il contraccolpo del crack azionario internazionale: pragmatismo, tradizione millenaria al piccolo risparmio autogestito, e atavica diffidenza verso le rapide fortune, azionarie incluse, e ai loro colpi di vento, hanno protetto la gran parte di noi da un’onda d’urto altrimenti pesantissima.
Formichine edoniste, gli italiani hanno messo in atto spontaneamente, e naturalmente, una strategia adattativa dei consumi estremamente interessante, anche dal punto di vista psicologico e comportamentale. La parola d’ordine, che ciascuno sembra aver messo in atto come se un tam-tam silenzioso si fosse diffuso nel Paese, è: “mantenere l’essenziale per il proprio benessere, e tagliare il resto”. Un elogio della sobrietà, quasi, che ciascuno poi declina in base alle priorità personali. Nell’insieme, una virata psicologica che, a livello di grandi numeri, disegna una mappa precisa, soprattutto quando si considerino le strategie messe in atto per realizzarla. Naturalmente, su uno scenario variegato: a un estremo, gli “indenni”, quei 5,5 milioni di italiani che, grazie a redditi buoni e stabili, utilizzeranno comunque gli stessi beni, senza riduzioni. Al lato opposto, i più colpiti, quegli 880.000 italiani che dovranno tagliare robustamente i propri consumi: si tratta per lo più di anziani, di coppie a basso reddito con due figli, e persone con bassa scolarità. Nel mezzo, la grande massa dei funamboli dell’acquisto al servizio del benessere personale, che resta per gli italiani una priorità cromosomica. La dolce vita, come icona del vivere italico, anche in tempi in cui vivere era ben più difficile e faticoso di adesso. Ed ecco le strategie adattative: arbitri intelligenti di redditi e consumi, gli italiani si sono spostati in massa verso il “downgrading”, modo apparentemente più elegante, come tutte le espressioni mutuate dal mondo anglosassone, per dire il ricorso massiccio ai saldi e alle promozioni, praticate da ben il 68% degli italiani (fino al 77% dei più giovani), con un lodevole recupero di potere d’acquisto delle famiglie pari a 1,5 punti percentuali rispetto all’inflazione ufficiale. Dopo il furore per le cose firmate, ecco un’altra inversione critica risparmiosa : il 54% si è spostato verso acquisti senza marchio, con una riduzione secca della spesa di ben il 20-25% . E non è poco davvero. Millenariamente appassionati di mercati e mercatini, eccoli in massa di nuovo ai mercati quotidiani o settimanali, di paese o di quartiere. Oppure ad acquistare direttamente dai coltivatori (i farmer market, sempre per dirla bilingue) con un doppio guadagno: del 30% per chi acquista, e forse di più per chi vende, evitando i paurosi rincari di tutte le intermediazioni che dall’agricoltore al consumatore fanno altrimenti lievitare i prezzi. Per non parlare del guadagno in salute, grazie all’indubbia freschezza di frutta e verdura acquistati letteralmente sul campo. Grande migrazione anche verso gli ipermercati, e le stock house, le aree di vendita di prodotti di marca a basso costo, che hanno sedotto stabilmente il 33,8% degli italiani.
Quasi miracolosamente, nella nuova sobrietà c’è anche una maggiore attenzione a ridurre i consumi di acqua e di energia elettrica, praticata dall’87% degli italiani. E chissà che questo non porti a un miglior rispetto dell’ambiente, che ancora oltraggiamo oltremisura.
Formichine salutiste, i nostri connazionali tendono a ridurre le quantità ma a salvare la qualità, almeno nel cibo e nel tempo per prepararlo: vanno alla grande, nonostante la crisi, i prodotti “bio”, perché la salute resta una priorità; quelli “time saving”, perché anche il tempo è un lusso, con in testa le insalate lavate e tagliate (per cui impazziscono di gioia le donne che lavorano, ma anche tutti i single), i primi piatti surgelati e i buoni vini od oli di qualità (Doc, Docg, Dop e così via).
Cosa resta irrinunciabile per gli italiani, nel senso di beni o servizi per i quali continueranno a spendere nella stessa misura (guadagni permettendo)? In testa le spese per le cure mediche private (85,8%), le attività extrascolastiche dei figli (74,7%), motociclette (59,8%), anche per sopravvivere nel caos urbano riducendo i consumi e i tempi, e telefono cellulare (58,7%). Ma anche almeno una settimana di vacanze all’anno (53,7%), automobili (50%), diete di qualità (47,9%), sport e fitness (47,8%): tutte percentuali calcolate sul totale degli utilizzatori effettivi attuali del bene o del servizio. Tutto sommato, una mappa che mostra plasticità mentale e capacità di ridistribuire i consumi per salvare quello che ciascuno considera prioritario, in un modo consolante quando lo si veda condiviso dalla maggioranza di amici e conoscenti. Con il taglio di molto inessenziale (a cominciare dalla manìa per i marchi, per oggetti o vestiario che comunque hanno perso molto dello smalto sartoriale antico), è allora possibile continuare a sentirsi ancora bene, nonostante la crisi. Con consumi più funzionali e qualche sfizio, per tenersi un po’ di sana dolcezza nella vita, da formichine lungimiranti e, nelle emergenze, persino giudiziose.