Quanto? Come misurarlo? E’ una quantità trasversale, indipendente dall’ambito considerato, per esempio musica, sport, imprenditoria, o no? Una serie di suggestivi studi americani cerca di rispondere a un quesito che riguarda ogni ambito educativo. “Outliers”, di Malcolm Gladwell (Back Bay Books) li analizza criticamente. Lo psicologo K. Anders Ericsson ha valutato gli studenti della Berlin’s Elite Academy of Music. Con la collaborazione dei professori, ha diviso i violinisti in tre gruppi. Nel primo c’erano gli studenti alfa, con il potenziale di diventare solisti di classe mondiale; nel secondo gli studenti “buoni”; nel terzo quelli che non avrebbero mai suonato a livello professionale e che intendevano diventare insegnanti di musica nelle scuole pubbliche. A tutti venne rivolta la stessa domanda: «Da quando ha preso in mano un violino, quante ore si è esercitato?». Tutti avevano iniziato più o meno a cinque anni. Tutti all’inizio avevano suonato due-tre ore la settimana. Intorno ai sette-otto anni ecco lo stacco: i migliori, i più dotati, cominciavano a esercitarsi sempre di più: sei ore in media la settimana a nove anni, otto ore a dodici, sedici ore a quattordici. A vent’anni si esercitavano più di trenta ore a settimana, con impegno e concentrata dedizione, con l’obiettivo di perfezionarsi al massimo. Di fatto, all’età di vent’anni i migliori avevano già suonato più di 10.000 ore. Gli studenti di medio livello non arrivavano a 8.000, e i futuri insegnanti di musica non superavano le 4.000.
E’ una quantità di pratica necessaria ed esclusiva dei violinisti? No. Ericsson ha studiato i pianisti: stesso risultato. Per appartenere all’eccellenza bisogna superare le 10.000 ore, per suonicchiare a casa possono bastare 2.000. Interessante: nessun musicista sembrava possedere un talento sufficiente ad eccellere di per sé, senza una quota critica di pratica costante, appassionata e dedicata. Una volta che un giovane ha il talento, per superare la soglia dell’eccellenza le 10.000 ore sono un requisito “non negoziabile”. Questo è stato dimostrato anche nello sport, nella danza, nel gioco degli scacchi, nello studio, nell’imprenditoria. Come se il cervello, anche il più dotato, avesse poi bisogno di un esercizio sistematico e costante, durante gli anni di massima duttilità e plasticità neuromuscolare e sistemica, per ambire all’eccellenza.
Coloro che arrivano al top sono partiti da un buon talento, ma hanno lavorato e lavorano molto, molto più intensamente di tutti gli altri. Parlatene con Roberto Bolle. Il neurologo Daniel Levitin aggiunge: «10.000 ore di pratica sono necessarie e indispensabili al cervello per raggiungere il livello critico che consente l’eccellenza. E’ questo il numero magico della grandezza». Tuttavia 10.000 ore sono un’enorme quantità di tempo. E’ difficile che un bambino e un adolescente possano da soli avere questa costanza. Cos’altro serve? Genitori che incoraggino e sostengano il figlio nei momenti di difficoltà, che ci sono in ogni strada, anche per i più dotati. Un minimo di benessere economico. Accedere ad accademie scelte, per le quali servono talento e tanta pratica di livello. Morale: ragazzi, basta con il mito dell’improvvisazione. Genitori, non esiste il figlio genio “a prescindere”. In ogni disciplina servono applicazione, costanza e dedizione…per almeno 10.000 ore, e molte di più, se si vuole eccellere.
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