Aumentano i suicidi. Non fa eccezione il Nord-Est. Sui quotidiani le notizie sono brevi, poche righe ormai, spesso per riportare più suicidi in uno stesso giorno, o in una stessa provincia. Fa ancora notizia il suicidio plurimo, come quello di Civitanova Marche. Tra poco ci sarà assuefazione – o rassegnazione? – anche per quello. Il Nord Italia ha più suicidi (53,9% ) del Centro e del Sud insieme. La Lombardia ha il primato di regione più segnata da una disperazione assoluta e fatale, seguita dal Veneto. L’aumento è progressivo dal 2008, anno di prima emergenza di una crisi economica, sociale, esistenziale ed etica, la cui ombra mortifera continua ad aumentare. Tra i disoccupati, gli uomini sono l’85-87% dei morti. Questo perché per molti perdere il lavoro per equivale ad una malattia mortale. A livello politico, a parte qualche frase di circostanza, non sembra esserci alcun rimorso, anzi nemmeno un sussulto di coscienza. Anche questo fa parte delle molte vergogne per le quali la maggioranza dei politici mostra un’indifferenza (che a molti sembra) criminale.
E’ il lavoro che sostiene l’identità personale e sociale, che consente di realizzarsi, o almeno di vivere dignitosamente, e di dare un futuro ai propri figli. Perdere il lavoro perché licenziati, o esodati, comporta una perdita secca di ruolo, di identità, di reddito, di relazioni sociali. Se la persona non ha una rete solidissima di affetti, e altre passioni che possano nutrire l’amore per la vita, la perdita del lavoro può essere fatale.
Riflettendo su tante storie di autodistruzione, colpiscono alcuni denominatori comuni. Da un lato la solitudine: uomini, soprattutto, separati, divorziati o single, per i quali il lavoro era l’unico galleggiante sociale, l’unico ancoraggio al vivere. Perdere il lavoro significa allora toccare con mano che il nostro valore, nel mondo, si è azzerato, che non interessiamo più a nessuno. Suicidarsi è come mettere la firma su una lettera di licenziamento definitiva, questa volta dalla vita. Tuttavia, non tutti i suicidi sono persone sole che hanno perso il lavoro. All’estremo opposto ci sono persone, uomini e donne, che hanno ancora un lavoro, magari a rischio, ma che hanno bambini piccoli. In questi casi la disperazione è ancora più ottenebrante: non va solo a uccidere il principio di autoconservazione, che normalmente ci tiene aggrappati alla vita, anche in circostanze avverse. Ma va a far esplodere, in parallelo, il principio di protezione dei piccoli secondo il quale, semmai, il genitore si sacrifica pur di salvare i bambini, che sono il futuro della famiglia. Dal punto di vista simbolico, è una doppia distruttività, che non solo annichilisce se stessi, ma priva i figli della possibilità di essere amati, guidati, accompagnati con fiducia in quella selva oscura che spesso è la vita. Che li lascia anzi con un’ipoteca spaventosa sulla possibilità di essere felici.
Quale che sia lo status del suicida, è inquietante la progressiva indifferenza con cui la notizia di queste morti viene accolta. Per cinismo? Per autoprotezione? Per paralisi emotiva? O perché siamo talmente sfiduciati da accogliere queste morti come l’ineludibile prezzo di una crisi da cui non si vede via d’uscita? Bisogna reagire a questa anestesia morale e fare di più, a livello individuale, e non solo politico. Vivere con maggiore sobrietà, per aiutare chi è meno fortunato di noi. Per pura e solidale generosità, non per il tipico “do ut des” di troppe relazioni umane. Bisogna uscire dalla paura, dal dolore personale, dal cinismo, che ci rende ancora troppo sordi e ciechi. Per accorgerci in tempo di chi è davvero in difficoltà. Di chi è solo, o si sente solo e disperato, anche se vive con qualcuno. C’è un grande bisogno di gentilezza, di una parola affettuosa e di conforto, di un abbraccio, di sentire che esistiamo ancora per qualcuno. Di sentirci apprezzati e amati, indipendentemente dal lavoro. Ogni gesto di attenzione, di gratificazione, di aiuto è una sentinella di vita. Un antidoto sano al suicidio. E dare opportunità vere di lavoro e di futuro: questa è la migliore prevenzione.
E’ il lavoro che sostiene l’identità personale e sociale, che consente di realizzarsi, o almeno di vivere dignitosamente, e di dare un futuro ai propri figli. Perdere il lavoro perché licenziati, o esodati, comporta una perdita secca di ruolo, di identità, di reddito, di relazioni sociali. Se la persona non ha una rete solidissima di affetti, e altre passioni che possano nutrire l’amore per la vita, la perdita del lavoro può essere fatale.
Riflettendo su tante storie di autodistruzione, colpiscono alcuni denominatori comuni. Da un lato la solitudine: uomini, soprattutto, separati, divorziati o single, per i quali il lavoro era l’unico galleggiante sociale, l’unico ancoraggio al vivere. Perdere il lavoro significa allora toccare con mano che il nostro valore, nel mondo, si è azzerato, che non interessiamo più a nessuno. Suicidarsi è come mettere la firma su una lettera di licenziamento definitiva, questa volta dalla vita. Tuttavia, non tutti i suicidi sono persone sole che hanno perso il lavoro. All’estremo opposto ci sono persone, uomini e donne, che hanno ancora un lavoro, magari a rischio, ma che hanno bambini piccoli. In questi casi la disperazione è ancora più ottenebrante: non va solo a uccidere il principio di autoconservazione, che normalmente ci tiene aggrappati alla vita, anche in circostanze avverse. Ma va a far esplodere, in parallelo, il principio di protezione dei piccoli secondo il quale, semmai, il genitore si sacrifica pur di salvare i bambini, che sono il futuro della famiglia. Dal punto di vista simbolico, è una doppia distruttività, che non solo annichilisce se stessi, ma priva i figli della possibilità di essere amati, guidati, accompagnati con fiducia in quella selva oscura che spesso è la vita. Che li lascia anzi con un’ipoteca spaventosa sulla possibilità di essere felici.
Quale che sia lo status del suicida, è inquietante la progressiva indifferenza con cui la notizia di queste morti viene accolta. Per cinismo? Per autoprotezione? Per paralisi emotiva? O perché siamo talmente sfiduciati da accogliere queste morti come l’ineludibile prezzo di una crisi da cui non si vede via d’uscita? Bisogna reagire a questa anestesia morale e fare di più, a livello individuale, e non solo politico. Vivere con maggiore sobrietà, per aiutare chi è meno fortunato di noi. Per pura e solidale generosità, non per il tipico “do ut des” di troppe relazioni umane. Bisogna uscire dalla paura, dal dolore personale, dal cinismo, che ci rende ancora troppo sordi e ciechi. Per accorgerci in tempo di chi è davvero in difficoltà. Di chi è solo, o si sente solo e disperato, anche se vive con qualcuno. C’è un grande bisogno di gentilezza, di una parola affettuosa e di conforto, di un abbraccio, di sentire che esistiamo ancora per qualcuno. Di sentirci apprezzati e amati, indipendentemente dal lavoro. Ogni gesto di attenzione, di gratificazione, di aiuto è una sentinella di vita. Un antidoto sano al suicidio. E dare opportunità vere di lavoro e di futuro: questa è la migliore prevenzione.