«Voglio accorciare i tempi», dice l’uomo agli sherpa che lo accompagnano in una scalata su una parete dell’Himalaya. «Ho ordinato l’elicottero, così saliamo al campo base in due ore invece che impegnarci due giorni». Gli sherpa ascoltano. Preparano i bagagli e salgono senza parlare. Arrivati al campo base, cominciano a montare le tende. L’uomo li guarda irritato: «Ma cosa fate?! Adesso bisogna cominciare a salire!». «Impossibile – risponde uno sherpa – dobbiamo aspettare due giorni che arrivino le nostre anime».
E’ solo lo sherpa che deve aspettare la sua anima per poter salire in vetta, o c’è una verità più profonda, nelle sue parole, che ci interessa tutti? Una verità che vada oltre l’immediato «Non hanno voglia di lavorare e le inventano tutte!», e oltre la riflessione sulla necessità di ottimizzare sistema neurovegetativo, motorio e cognitivo per affrontare con la massima efficienza e – carichi – salite ad altitudini elevatissime, con ossigeno rarefatto e basse temperature? La saggezza degli sherpa ci dice qualcosa di più sostanziale, sul piano simbolico e della strategia migliore per affrontare la vita.
Viviamo in tempi concitati, frenetici, con il tempo che ci incalza. “Bruciare le tappe”, “accelerare i tempi”, “fare in fretta”, dimezzare il tempo”: sono tutte espressioni che indicano il rapporto compresso che noi abbiamo con il tempo.
In passato abbiamo parlato del tempo “chrónos”, il tempo che tutto divora, e del tempo “kairós”, il tempo propizio, in cui un diverso rapporto con i ritmi della vita ci consente di esserne davvero protagonisti consapevoli. Lo sherpa ci dice qualcosa di più. Sottolinea la frattura, sempre più frequente, che creiamo in noi stessi quando acceleriamo troppo i nostri tempi: del fare, dell’apprendere, del guarire, dell’amare. Del fare, quando l’impulsività ci porta a fare errori anche grossolani, per non aver preso il tempo di esaminare tutte le variabili in gioco. Impulsività che aumenta quando la paura, o l’angoscia, ci portano a fare un salto nel buio, in ogni aspetto della vita. Aspettare l’anima, in questi casi, vuol dire prendersi il tempo di non fuggire, di ascoltarsi e ascoltare, riflettere, esaminare, ripensare e poi, se convinti, agire. A quel punto sì, anche veloci, perché il piano è chiaro, la strada ben segnata, l’obiettivo preciso.
Aspettare l’anima, nell’apprendere, vuol dire darsi il tempo di digerire e assimilare la nozione, si sia un bambino o un adulto. Darsi il tempo di ripeterla, e meditarla, perché “entri” e si consolidi nella memoria emotiva, e non solo cognitiva. Aspettare l’anima, nel guarire, significa riscoprire e rispettare il tempo della convalescenza, cominciando dai bambini. La malattia ci dice molto di noi, sul piano affettivo e simbolico, se la vogliamo ascoltare, molto più di quanto ci dica sul solo fronte biologico. Su questo, Platone ha scritto riflessioni profonde, differenziando la medicina per schiavi, per rimetterli subito al lavoro, e la medicina per uomini liberi, attenta agli affetti, alla famiglia e all’anima.
Aspettare l’anima, infine, è straordinario nell’amore: quando non si incontrano solo due corpi. Oggi l’impulsività nell’agire l’attrazione sessuale, nel viverla immediatamente in un sesso urgente e appassionato, può darci soddisfazione. Può travolgerci di piacere, se si ha la fortuna di incontrare un/una partner con cui ci sia davvero una vibrante sintonia di pelle, di odore, di feeling dei corpi. Più spesso, tuttavia, passato il furore immediato, resta poco. Perché i corpi c’erano, sì, ma non c’era l’anima, rimasta indietro o dimenticata. Perché sono la sensibilità e l’intuizione, fisica e non solo emotiva, che l’anima ci regala, a renderci unici e indimenticabili, anche nel far l’amore.
Saper aspettare l’anima, ancor più in tempi di crisi, significa rispettare il bisogno di ritrovare l’equilibrio interiore, il bisogno di ricomposizione e pacificazione, per ripartire in armonia. Innanzitutto con noi stessi. Poi con gli altri, e con il mondo.
E’ solo lo sherpa che deve aspettare la sua anima per poter salire in vetta, o c’è una verità più profonda, nelle sue parole, che ci interessa tutti? Una verità che vada oltre l’immediato «Non hanno voglia di lavorare e le inventano tutte!», e oltre la riflessione sulla necessità di ottimizzare sistema neurovegetativo, motorio e cognitivo per affrontare con la massima efficienza e – carichi – salite ad altitudini elevatissime, con ossigeno rarefatto e basse temperature? La saggezza degli sherpa ci dice qualcosa di più sostanziale, sul piano simbolico e della strategia migliore per affrontare la vita.
Viviamo in tempi concitati, frenetici, con il tempo che ci incalza. “Bruciare le tappe”, “accelerare i tempi”, “fare in fretta”, dimezzare il tempo”: sono tutte espressioni che indicano il rapporto compresso che noi abbiamo con il tempo.
In passato abbiamo parlato del tempo “chrónos”, il tempo che tutto divora, e del tempo “kairós”, il tempo propizio, in cui un diverso rapporto con i ritmi della vita ci consente di esserne davvero protagonisti consapevoli. Lo sherpa ci dice qualcosa di più. Sottolinea la frattura, sempre più frequente, che creiamo in noi stessi quando acceleriamo troppo i nostri tempi: del fare, dell’apprendere, del guarire, dell’amare. Del fare, quando l’impulsività ci porta a fare errori anche grossolani, per non aver preso il tempo di esaminare tutte le variabili in gioco. Impulsività che aumenta quando la paura, o l’angoscia, ci portano a fare un salto nel buio, in ogni aspetto della vita. Aspettare l’anima, in questi casi, vuol dire prendersi il tempo di non fuggire, di ascoltarsi e ascoltare, riflettere, esaminare, ripensare e poi, se convinti, agire. A quel punto sì, anche veloci, perché il piano è chiaro, la strada ben segnata, l’obiettivo preciso.
Aspettare l’anima, nell’apprendere, vuol dire darsi il tempo di digerire e assimilare la nozione, si sia un bambino o un adulto. Darsi il tempo di ripeterla, e meditarla, perché “entri” e si consolidi nella memoria emotiva, e non solo cognitiva. Aspettare l’anima, nel guarire, significa riscoprire e rispettare il tempo della convalescenza, cominciando dai bambini. La malattia ci dice molto di noi, sul piano affettivo e simbolico, se la vogliamo ascoltare, molto più di quanto ci dica sul solo fronte biologico. Su questo, Platone ha scritto riflessioni profonde, differenziando la medicina per schiavi, per rimetterli subito al lavoro, e la medicina per uomini liberi, attenta agli affetti, alla famiglia e all’anima.
Aspettare l’anima, infine, è straordinario nell’amore: quando non si incontrano solo due corpi. Oggi l’impulsività nell’agire l’attrazione sessuale, nel viverla immediatamente in un sesso urgente e appassionato, può darci soddisfazione. Può travolgerci di piacere, se si ha la fortuna di incontrare un/una partner con cui ci sia davvero una vibrante sintonia di pelle, di odore, di feeling dei corpi. Più spesso, tuttavia, passato il furore immediato, resta poco. Perché i corpi c’erano, sì, ma non c’era l’anima, rimasta indietro o dimenticata. Perché sono la sensibilità e l’intuizione, fisica e non solo emotiva, che l’anima ci regala, a renderci unici e indimenticabili, anche nel far l’amore.
Saper aspettare l’anima, ancor più in tempi di crisi, significa rispettare il bisogno di ritrovare l’equilibrio interiore, il bisogno di ricomposizione e pacificazione, per ripartire in armonia. Innanzitutto con noi stessi. Poi con gli altri, e con il mondo.