Tempo d’estate, tempo per prendersi cura di sé e delle persone amate, in preparazione di un autunno inquieto. Come farlo? Quali sono i fattori emotivi che predicono una maggiore efficacia della cura? Sia essa la cura di un figlio o di un amore; di un allievo o di un paziente; di un amico o di un genitore? O persino la cura di un animale amato, di un fiore o di un giardino?
Certo, per curare e prendersi cura in modo ottimale servono conoscenza, competenza, passione, autodisciplina e dedizione. Se il prendersi cura include l’insegnamento e/o la terapia, sono necessari anche il metodo, lo studio, l’aggiornamento continuo. Sono qualità essenziali perché costituiscono la base sicura, concreta e pragmatica, su cui costruire un progetto di cura. Tuttavia, affinché queste qualità arrivino con efficacia al corpo e all’anima della persona che desideriamo curare serve un lievito universale e specifico al tempo stesso: la tenerezza. Lo sostiene con diverse declinazioni la professoressa Luigina Mortari, docente di Epistemologia (scienza che studia la teoria e il metodo della conoscenza) all’Università di Verona. Ne parla anche in una stimolante conferenza su “La cura nella società complessa”, che ho avuto il piacere di ascoltare e meditare (disponibile su YouTube).
Perché la tenerezza è la misura di ogni cura, di ogni cura efficace? «La tenerezza consente all’altro/a di entrare nel mio cuore», sostiene Mortari. E di entrarvi sentendosi accolto e amato, con quell’amore profondo e spirituale che i greci chiamavano agápe, intendendo con esso la capacità di portare l’altro alla luce. Nel senso di portare alla luce la sua anima, la sua verità, il suo essere più intimo e profondo: l’essenza dell’arte maieutica.
La tenerezza, sentimento materno per eccellenza, ci fa sentire amati e unici, meritevoli di uscire dal bozzolo delle nostre potenzialità embrionali per diventare farfalla (psyché, in greco, significa anima ma anche farfalla…). Ci vuole tenerezza per crescere al meglio un figlio, per stimolarlo a superare la sua vulnerabilità, la sua fragilità, perché possa esprimersi bene su un piano di realtà. Ci vuole tenerezza con gli allievi, dalle materne in su, perché possano coltivare in parallelo corpo e anima, perché amino la vita reale e non solo quella virtuale. Perché amino il pensiero argomentativo, che sa andare in profondità, e non solo quello orizzontale, superficiale, tipico del pensiero digitale. Ci vuole tenerezza nella coppia e nella famiglia, per superare costruttivamente le molte difficoltà e i molti disincanti di cui è costellata la vita quotidiana, e tener vivo l’amore. Ci vuole tanta tenerezza per accudire col cuore genitori anziani e malati, affinché il prendersi cura sia luminoso e affettuoso, nonostante la pesantezza dell’impegno. Sulla necessità di “rivalutare la tenerezza” ha ben scritto il coraggioso Enzo Bianchi (Avvenire, 14 ottobre 2015). Ne parla spesso Papa Francesco. Da medico appassionato, anch’io considero la tenerezza il modo più efficace per prendersi cura di un/a paziente, per comunicare la diagnosi, per motivarlo/a ancor meglio alla cura. La tenerezza aggiunge una nota in più alla comunicazione fra medico e paziente: lo fa sentire persona, e non oggetto, corpo e anima, e non un patchwork di organi. Gli fa sentire che il medico desidera veramente che lui, o lei, stia molto meglio, non per successo personale, ma perché aiutare a recuperare una migliore salute del corpo e dell’anima è il vero obiettivo della terapia, come già sosteneva Platone 2500 anni fa.
Attenzione: la tenerezza non è un sentimento posato sulla luna, o una parola romantica da buon tempo antico. La tenerezza efficace è un solido e scelto fattore trasformativo: capace di far nascere e crescere l’anima di chi scegliamo di curare con amore sensibile e spirituale. Richiede generosità (tanta), rispetto, per la persona che curiamo e per la vita, capacità di tenere la giusta vicinanza/distanza, di dare speranza e fiducia.
Perché ne parlo oggi? In questi tempi sembrano aumentati la durezza, l’aggressività, l’intolleranza, la brutalità, nel linguaggio e nei comportamenti. Un possibile antidoto, per vivere e far vivere meglio, è proprio ridare spazio e voce alla tenerezza, ciascuno nella propria dimensione, insieme alla gentilezza, la sua sorellina amata. Il beneficio? Vivere relazioni più profonde e significative, affetti più vibranti. Sentire che il nostro prenderci cura con tenerezza irradia energia positiva e fa stare meglio anche noi. Quanta tenerezza abita ora nella nostra vita?
Certo, per curare e prendersi cura in modo ottimale servono conoscenza, competenza, passione, autodisciplina e dedizione. Se il prendersi cura include l’insegnamento e/o la terapia, sono necessari anche il metodo, lo studio, l’aggiornamento continuo. Sono qualità essenziali perché costituiscono la base sicura, concreta e pragmatica, su cui costruire un progetto di cura. Tuttavia, affinché queste qualità arrivino con efficacia al corpo e all’anima della persona che desideriamo curare serve un lievito universale e specifico al tempo stesso: la tenerezza. Lo sostiene con diverse declinazioni la professoressa Luigina Mortari, docente di Epistemologia (scienza che studia la teoria e il metodo della conoscenza) all’Università di Verona. Ne parla anche in una stimolante conferenza su “La cura nella società complessa”, che ho avuto il piacere di ascoltare e meditare (disponibile su YouTube).
Perché la tenerezza è la misura di ogni cura, di ogni cura efficace? «La tenerezza consente all’altro/a di entrare nel mio cuore», sostiene Mortari. E di entrarvi sentendosi accolto e amato, con quell’amore profondo e spirituale che i greci chiamavano agápe, intendendo con esso la capacità di portare l’altro alla luce. Nel senso di portare alla luce la sua anima, la sua verità, il suo essere più intimo e profondo: l’essenza dell’arte maieutica.
La tenerezza, sentimento materno per eccellenza, ci fa sentire amati e unici, meritevoli di uscire dal bozzolo delle nostre potenzialità embrionali per diventare farfalla (psyché, in greco, significa anima ma anche farfalla…). Ci vuole tenerezza per crescere al meglio un figlio, per stimolarlo a superare la sua vulnerabilità, la sua fragilità, perché possa esprimersi bene su un piano di realtà. Ci vuole tenerezza con gli allievi, dalle materne in su, perché possano coltivare in parallelo corpo e anima, perché amino la vita reale e non solo quella virtuale. Perché amino il pensiero argomentativo, che sa andare in profondità, e non solo quello orizzontale, superficiale, tipico del pensiero digitale. Ci vuole tenerezza nella coppia e nella famiglia, per superare costruttivamente le molte difficoltà e i molti disincanti di cui è costellata la vita quotidiana, e tener vivo l’amore. Ci vuole tanta tenerezza per accudire col cuore genitori anziani e malati, affinché il prendersi cura sia luminoso e affettuoso, nonostante la pesantezza dell’impegno. Sulla necessità di “rivalutare la tenerezza” ha ben scritto il coraggioso Enzo Bianchi (Avvenire, 14 ottobre 2015). Ne parla spesso Papa Francesco. Da medico appassionato, anch’io considero la tenerezza il modo più efficace per prendersi cura di un/a paziente, per comunicare la diagnosi, per motivarlo/a ancor meglio alla cura. La tenerezza aggiunge una nota in più alla comunicazione fra medico e paziente: lo fa sentire persona, e non oggetto, corpo e anima, e non un patchwork di organi. Gli fa sentire che il medico desidera veramente che lui, o lei, stia molto meglio, non per successo personale, ma perché aiutare a recuperare una migliore salute del corpo e dell’anima è il vero obiettivo della terapia, come già sosteneva Platone 2500 anni fa.
Attenzione: la tenerezza non è un sentimento posato sulla luna, o una parola romantica da buon tempo antico. La tenerezza efficace è un solido e scelto fattore trasformativo: capace di far nascere e crescere l’anima di chi scegliamo di curare con amore sensibile e spirituale. Richiede generosità (tanta), rispetto, per la persona che curiamo e per la vita, capacità di tenere la giusta vicinanza/distanza, di dare speranza e fiducia.
Perché ne parlo oggi? In questi tempi sembrano aumentati la durezza, l’aggressività, l’intolleranza, la brutalità, nel linguaggio e nei comportamenti. Un possibile antidoto, per vivere e far vivere meglio, è proprio ridare spazio e voce alla tenerezza, ciascuno nella propria dimensione, insieme alla gentilezza, la sua sorellina amata. Il beneficio? Vivere relazioni più profonde e significative, affetti più vibranti. Sentire che il nostro prenderci cura con tenerezza irradia energia positiva e fa stare meglio anche noi. Quanta tenerezza abita ora nella nostra vita?