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Tornare a casa

04/07/2005

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Cresce, soprattutto nelle città, il senso di sradicamento, il più potente fattore di solitudine che un uomo o una donna possano vivere. Quando ci si sente sradicati, viene minacciato il senso di identità personale e, soprattutto, di appartenenza: ad una famiglia, a una comunità, a una terra. Di appartenenza a se stessi. La parola sradicarsi – così terrena e potente – indica bene la minaccia peggiore che in realtà incombe: la perdita del nutrimento, della linfa, dell’energia vitale che attraverso le radici, affondate nella terra, àncora e nutre tutto l’organismo. Per un uomo, per una donna, sradicarsi significa perdere anche la saggezza della terra, il senso del tempo e delle stagioni, specialmente nella vita personale. Significa perdere o impoverire la capacità di rapporti affettivi profondi e significativi, trasformando l’esistenza in una carambola di relazioni frenetiche e superficiali. O in una palude di affetti, senza più emozioni. Significa diventare più vulnerabili alle difficoltà della vita, sul fronte sia affettivo, sia professionale.
Non è poi un caso se, in una città come Milano, le separazioni e i divorzi sono tre volte più numerosi rispetto a una piccola città di provincia, e le depressioni da due a tre volte superiori.
E cresce il bisogno di “tornare a casa”. Lo avverto nei discorsi degli amici, dei pazienti. Spesso come un’intuizione embrionale di un recupero di benessere interiore ancora possibile, nonostante il marasma, che devasta, o la noia, che narcotizza alcuni periodi della vita. Questo tornare a casa non significa, necessariamente, tornare nella casa dell’infanzia, ma in un luogo emotivamente ed affettivamente ad essa molto vicino, specie se con l’infanzia – e l’adolescenza, che è la stagione del possibile e del meraviglioso – c’è stato un rapporto positivo, di gioia e di inquieta serenità.
A volte è un incontro, d’amicizia o d’amore, a farci capire che siamo sradicati da noi stessi, che non ci apparteniamo più, che le piccole insidie del quotidiano, o le grandi guerre d’ambizione, ci hanno estraniati, ci hanno fatto perdere – simbolicamente – il contatto con la terra, con la verità dei sentimenti e anche delle nostre aspirazioni più profonde, che abbiamo tradito, o solo dimenticato, magari in una quieta consuetudine.
In altri casi è un percorso spirituale, che ci fa capire come il materialismo sfrenato, o l’ambizione inarrestabile e magari pure premiata dalla vita, abbiano appagato forse la nostra parte esibizionista e narcisa, ma lasciato insoddisfatto o inquieto il cuore.
Altre volte è un lutto che improvvisamente ci fa sentire con lucidità e dolore che da tempo eravamo sradicati da noi stessi, e non ce ne eravamo nemmeno accorti.
Per molti, tuttavia, questo ritorno è difficile. Forse perché lo sradicamento ha comportato la perdita della bussola interiore, quella che mantiene la rotta con lucida certezza, anche nei momenti difficili della vita. Forse perché della casa interiore si sono perse le tracce, in un drammatico naufragio di tutte le antiche certezze. O forse perché la nostalgia, questo dolore del ritorno, ha lusingato e insieme impedito per anni anche solo l’ascolto di questo profondo bisogno di tornare a casa. Che non è solo un luogo, un paese, una casa o una terra. E’ prima di tutto un ritornare a se stessi, dopo aver seriamente temuto di essersi quasi del tutto perduti: perché lo sradicamento dalla propria casa può comportare anche, e più profondamente, lo sradicamento da se stessi.
Eppure, profondamente, dentro all’anima, come suggerisce Clarissa Pinkòla Estès nel suo suggestivo “Donne che corrono coi lupi” (Frassinelli), di cui è piacevole rileggere, di tanto in tanto, qualche sapida pagina, “sappiamo come tornare a casa. La casa è là dove un pensiero o una sensazione possono svilupparsi. Casa è l’antica vita istintuale dove tutti i rumori hanno il suono giusto, e la luce è buona, e gli odori ci calmano. Essenziale è ciò che rinvigorisce l’equilibrio. Quella è casa”.
Una ricerca, dunque, una “recherche”, come mirabilmente ha descritto Marcel Proust, che ci porta a riscoprire le nostre parti vitali, narcotizzate dal trascorrere degli anni. Tornare a casa è anche tornare all’idea di sé che avevamo smarrito, o forse perfino per lunghi anni perduto, tra ragionevolezza e rimpianto.

Riflessioni di vita

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