Qual è la paura più forte, più pervadente, la più intollerabile e angosciante per ciascuno di noi? La paura che ci stringe il cuore in una morsa che ci lascia muti, quando l’orizzonte di vita si restringe e cominciamo a cogliere i segni della nostra fine? E’ la paura di morire soli. E di morire in ospedale, luogo di cura (neanche sempre) che tranquillizza forse i familiari, ma angoscia la gran parte dei morenti: per la sua sostanziale indifferenza al morire, al lato umano del morire. Per la negligenza nel saper cogliere e rispettare quei bisogni forti e imperiosi che la morte impone. Per la freddezza della routine con cui massifica l’unicità di un’esperienza essenziale, per il morente e per chi lo ama. Per le difficoltà sostanziali, anche logistiche e strutturali, che pone a chi voglia accompagnare in modo intimo e affettuoso una persona cara nei suoi ultimi giorni. Per la frattura tra la persona, con le sue emozioni, il suo dolore, il suo bisogno disperato di conforto, e il suo corpo, oggetto di cure sempre più indifferenti quando la partita è persa e il malato morituro diventa il testimone scomodo di un fallimento terapeutico. Ancor più quando la persona è anziana, e l’impegno di cura che volentieri viene dato ai più giovani diventa un agire piatto e distaccato. Per la distrazione sostanziale nei confronti delle emozioni ultime del malato, del suo bisogno di ricomposizione con la vita, con se stesso e con i familiari, che ognuno avverte quando sente che i giorni si chiudono.
E allora? Torniamo a casa. Torniamo a morire a casa. Dentro la tana che ha visto svolgersi la nostra vita, dove abita ancora qualcuno che ci ama. Dove ci sono magari il nostro cane o il nostro gatto, che certo saprebbero renderci meno duro l’addio e che ci sono mancati così tanto in ospedale. Dove ci sono gli oggetti che raccontano la nostra vita, le foto dei figli o dei nipoti, o degli amici, i ricordi, le tenerezze, i piccoli doni. Dove ci aspettano i libri che amiamo perché ci avevano stimolati a rileggere la vita e noi stessi con occhi nuovi. Dove sussurra la musica che ci ha fatto compagnia e regalato ore felici, dove vibrano le voci amate. Torniamo dove abita il profumo di casa, della nostra casa, che così profondamente ci placa. Dove le finestre si aprono su orizzonti familiari. Dove il Dio delle piccole cose può benevolmente regalarci il gusto di assaporare un cibo preparato con amore, o un fiore o un frutto appena colti, con quel profumo antico che sa di giardino o di orto, regalandoci ancora un’emozione struggente di vita e di felicità.
Torniamo a casa. Non lasciamo che la morte ci sorprenda disorientati, spaventati, abbandonati, estraniati in luoghi gelidi come sono le camere di ospedale, sradicati da casa e, soprattutto, dai nostri affetti. Sradicati, senza più identità, senza più memoria, morti a noi stessi prima ancora di morire davanti al mondo.
Se possibile, quando possibile, torniamo a casa. Non è facile. Spaventano i familiari l’impegno di assistenza e di cura, la paura di non fare abbastanza, di non riuscire a dare un’assistenza di qualità.
Certo, è indispensabile poter contare su un medico di famiglia generoso di tempo e di disponibilità, anche emotiva e affettiva, che aiuti nel dare la migliore assistenza, soprattutto dal punto di vista del controllo del dolore. E’ indispensabile una famiglia che sappia organizzarsi anche nella vita quotidiana. E’ (anche) nell’accompagnare alla morte che si misura la qualità di una famiglia, la sua coesione, la sua forza, la sua capacità di far quadrato nei momenti difficili. E l’accompagnare un familiare alla morte lo è, tra i più accoranti. E ci vuole anche un minimo di disponibilità economica, se l’assistenza richiede un aiuto infermieristico professionale.
Eppure, nel tornare a casa c’è un premio impareggiabile, che può giustificare ogni fatica, ogni sovraccarico di lavoro, di assistenza e di impegno. E’ la profonda pacificazione che ci avvolge quando riusciamo a stare vicini alla persona amata, la madre, il padre, un figlio, una nonna tanto cara, l’amica del cuore, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo secondo. E’ la pacificazione che regaliamo, quando diamo a chi ci lascia la possibilità preziosa di prepararsi a morire, emotivamente, affettivamente, spiritualmente. Lasciando di sé un ricordo intenso, generoso, proprio di chi ha saputo e potuto trovare il tempo – e darsi il tempo – per dare e chiedere perdono, per riappacificare, per rasserenare. Evitando che la morte arrivi di soppiatto, come un ladro che ci aggredisca in un luogo estraneo, freddo e sconosciuto. Lasciandoci dentro un insidioso senso di incompiutezza, che spesso noi sopravvissuti rifiutiamo poi come inutile, obsoleta inquietudine. “E’ ormai incosciente, in coma, cosa vuoi che senta...”. Non credo. Ci sono gradi diversi di coma e di incoscienza. Non sappiamo quanto le vibrazioni di una voce amata, di una carezza fatta con amore, di un profumo particolare, possano toccare le corde profonde di un morente, e dargli ancora sollievo e conforto, perché gli dicono: “Non avere paura. Sono qui con te. Siamo qui...”. Mia zia novantenne era in coma. Era gennaio. Le ho portato un grande mazzo di calicanthus, il suo fiore preferito, appena colto in giardino. Gliel’ho messo vicino, perché il profumo le arrivasse intenso. Ho visto il suo volto contratto dal dolore distendersi poco a poco, mentre le parlavo e l’accarezzavo piano piano. Poi, incredibilmente, la sua voce, lei che da giorni non parlava più: “Oh, il calicanthus...”. Quell’eco di vita le aveva regalato un’ultima emozione, un ultimo sorriso. Dopo poche ore è spirata.
Torniamo a casa, perché la solitudine ineludibile dell’ultimo passo misterioso, dentro il nulla o dentro un’altra vita, è meno dura se attorno a noi c’è un’atmosfera affettuosa, intima, fatta di tenerezza, di presenza e di attenzioni.
Torniamo a casa, per prepararci a riposare davvero in pace, con noi stessi e con il mondo. Acquietati, finalmente sereni, perché la vita ha trovato il suo senso ultimo in un morire affettuoso, intimo e accompagnato. Mai più soli. E’ questo l’ultimo dono, per tutti quelli che amiamo e che stanno per morire: aiutiamoli a tornare a casa.
E allora? Torniamo a casa. Torniamo a morire a casa. Dentro la tana che ha visto svolgersi la nostra vita, dove abita ancora qualcuno che ci ama. Dove ci sono magari il nostro cane o il nostro gatto, che certo saprebbero renderci meno duro l’addio e che ci sono mancati così tanto in ospedale. Dove ci sono gli oggetti che raccontano la nostra vita, le foto dei figli o dei nipoti, o degli amici, i ricordi, le tenerezze, i piccoli doni. Dove ci aspettano i libri che amiamo perché ci avevano stimolati a rileggere la vita e noi stessi con occhi nuovi. Dove sussurra la musica che ci ha fatto compagnia e regalato ore felici, dove vibrano le voci amate. Torniamo dove abita il profumo di casa, della nostra casa, che così profondamente ci placa. Dove le finestre si aprono su orizzonti familiari. Dove il Dio delle piccole cose può benevolmente regalarci il gusto di assaporare un cibo preparato con amore, o un fiore o un frutto appena colti, con quel profumo antico che sa di giardino o di orto, regalandoci ancora un’emozione struggente di vita e di felicità.
Torniamo a casa. Non lasciamo che la morte ci sorprenda disorientati, spaventati, abbandonati, estraniati in luoghi gelidi come sono le camere di ospedale, sradicati da casa e, soprattutto, dai nostri affetti. Sradicati, senza più identità, senza più memoria, morti a noi stessi prima ancora di morire davanti al mondo.
Se possibile, quando possibile, torniamo a casa. Non è facile. Spaventano i familiari l’impegno di assistenza e di cura, la paura di non fare abbastanza, di non riuscire a dare un’assistenza di qualità.
Certo, è indispensabile poter contare su un medico di famiglia generoso di tempo e di disponibilità, anche emotiva e affettiva, che aiuti nel dare la migliore assistenza, soprattutto dal punto di vista del controllo del dolore. E’ indispensabile una famiglia che sappia organizzarsi anche nella vita quotidiana. E’ (anche) nell’accompagnare alla morte che si misura la qualità di una famiglia, la sua coesione, la sua forza, la sua capacità di far quadrato nei momenti difficili. E l’accompagnare un familiare alla morte lo è, tra i più accoranti. E ci vuole anche un minimo di disponibilità economica, se l’assistenza richiede un aiuto infermieristico professionale.
Eppure, nel tornare a casa c’è un premio impareggiabile, che può giustificare ogni fatica, ogni sovraccarico di lavoro, di assistenza e di impegno. E’ la profonda pacificazione che ci avvolge quando riusciamo a stare vicini alla persona amata, la madre, il padre, un figlio, una nonna tanto cara, l’amica del cuore, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo secondo. E’ la pacificazione che regaliamo, quando diamo a chi ci lascia la possibilità preziosa di prepararsi a morire, emotivamente, affettivamente, spiritualmente. Lasciando di sé un ricordo intenso, generoso, proprio di chi ha saputo e potuto trovare il tempo – e darsi il tempo – per dare e chiedere perdono, per riappacificare, per rasserenare. Evitando che la morte arrivi di soppiatto, come un ladro che ci aggredisca in un luogo estraneo, freddo e sconosciuto. Lasciandoci dentro un insidioso senso di incompiutezza, che spesso noi sopravvissuti rifiutiamo poi come inutile, obsoleta inquietudine. “E’ ormai incosciente, in coma, cosa vuoi che senta...”. Non credo. Ci sono gradi diversi di coma e di incoscienza. Non sappiamo quanto le vibrazioni di una voce amata, di una carezza fatta con amore, di un profumo particolare, possano toccare le corde profonde di un morente, e dargli ancora sollievo e conforto, perché gli dicono: “Non avere paura. Sono qui con te. Siamo qui...”. Mia zia novantenne era in coma. Era gennaio. Le ho portato un grande mazzo di calicanthus, il suo fiore preferito, appena colto in giardino. Gliel’ho messo vicino, perché il profumo le arrivasse intenso. Ho visto il suo volto contratto dal dolore distendersi poco a poco, mentre le parlavo e l’accarezzavo piano piano. Poi, incredibilmente, la sua voce, lei che da giorni non parlava più: “Oh, il calicanthus...”. Quell’eco di vita le aveva regalato un’ultima emozione, un ultimo sorriso. Dopo poche ore è spirata.
Torniamo a casa, perché la solitudine ineludibile dell’ultimo passo misterioso, dentro il nulla o dentro un’altra vita, è meno dura se attorno a noi c’è un’atmosfera affettuosa, intima, fatta di tenerezza, di presenza e di attenzioni.
Torniamo a casa, per prepararci a riposare davvero in pace, con noi stessi e con il mondo. Acquietati, finalmente sereni, perché la vita ha trovato il suo senso ultimo in un morire affettuoso, intimo e accompagnato. Mai più soli. E’ questo l’ultimo dono, per tutti quelli che amiamo e che stanno per morire: aiutiamoli a tornare a casa.
Malattia Morte e mortalità Rapporto con il malato Riflessioni di vita