Balint è autore di “Medico, paziente e malattia” (Giovanni Fioriti Editore), un libro che dovrebbe essere letto non solo da tutti gli studenti di medicina, ma anche da tutti i medici. E meditato, per non smarrire i fondamentali dell’arte medica nella giungla di burocrazia e tecnologia che sempre più assedia, tormenta e limita la nostra pratica clinica. Purtroppo il modello efficientistico-tecnologico sta di fatto allontanando i medici dai loro pazienti, sempre più oggetto di cure e sempre meno soggetto di attenzione, ascolto, rispetto. Un recente studio conferma che la crescente informatizzazione è percepita molto negativamente dai pazienti. Nello specifico, i pazienti seguiti nelle safety-net clinics dove i medici fanno un uso elevato dei computer sono meno propensi a considerare eccellenti le cure ricevute. «Le safety-net clinics sono centri che assistono pazienti con scarsa conoscenza dell’inglese e limitata alfabetizzazione sanitaria, ossia la capacità di acquisire, comprendere e utilizzare le informazioni per la propria salute», afferma la dottoressa Neda Ratanawongsa del San Francisco General Hospital, coautrice dell’articolo pubblicato su JAMA Internal Medicine. Insieme ai colleghi ha verificato nell’arco di un periodo durato due anni l’influenza dell’uso del computer sul rapporto medico-paziente in 47 persone con malattie croniche che parlavano inglese o spagnolo, registrando e analizzando minuto per minuto 71 incontri avvenuti tra i 47 pazienti studiati e i 39 medici curanti. Risultato? Rispetto a chi era stato visitato nel modo consueto, quelli curati da operatori sanitari che facevano un uso elevato dei computer avevano meno probabilità di considerare eccellenti le cure ricevute, reputando il supporto informatico un ostacolo alla comunicazione e alla costruzione di un rapporto positivo. Il dato è chiaro ed evidente anche in Italia: maggiore è l’uso del computer da parte del medico, minore è il tempo dedicato a costruire una relazione significativa, una vera “alleanza terapeutica” con il proprio paziente. Questo non significa non usare il computer, ma usarlo con saggezza. Soprattutto, usarlo al servizio di un miglior rapporto medico-paziente e di una migliore qualità di cure, invece che renderlo principe di una burocrazia acefala, che del mezzo ha fatto un fine, e di un servo un re.
Certo, l’informatizzazione dei dati è oggi essenziale per dare al paziente una sintesi clinica accurata e leggibile, per la comunicazione tra diversi specialisti e il medico di famiglia, per la valutazione delle cure erogate, e dei loro costi, da parte del Sistema Sanitario Nazionale, nonché a fini assicurativi e medico-legali. Tuttavia, i nostri pazienti più vulnerabili si sentono abbandonati ancor più di altri quando il medico spende una quantità sproporzionata di tempo a interagire con lo schermo del computer invece che con loro. La tecnologia non è né buona né cattiva, è l’uso che ne facciamo a qualificarla. La sfida è trovare il modo migliore per integrare l’uso del computer in ambulatorio senza perdere il rapporto medico-paziente, che resta il cuore e l’anima della medicina. Che senso ha avere un immenso, kafkiano database, se la persona che soffre non è più al centro della diagnosi e della cura? Se perde il cuore e l’anima, dove andrà la medicina contemporanea?
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