Quale strazio accompagnerà per sempre i genitori di Cristina, privati in modo atroce della figlia e degli adorati nipotini? In più per mano di un genero trattato come un figlio? C’è da morire di crepacuore.
E’ una tragedia immane anche per i genitori di lui. E’ lacerante e devastante scoprire nel figlio un sadico senza cuore. Un cinico che dopo la strage rassetta la casa, con i corpi dei figli morti a terra come fossero stracci, e se ne va “serenissimo” a vedere la partita con gli amici. «Dove abbiamo sbagliato? Come abbiamo potuto non accorgerci di nulla?»: anche per loro il presente e il futuro sono amarissimi.
Tragedie come queste uccidono rapidamente e lentamente. Per chi resta, per le famiglie e le amiche di lei, è un orrore che lacererà senza fine.
L’omicidio è premeditato, lei era “di ostacolo” pare, ad un’altra storia. Non c’è movente più sproporzionato all’immensità di questa strage.
Come può un uomo apparentemente normale fare questo ai propri figli, a una moglie affettuosa e tenera? Può, se è successo, perché in persone come queste c’è una banalizzazione assoluta della vita, che non rispetta nemmeno i legami di sangue più cari e stretti.
Esiste in questi casi un pensiero magico-onnipotente, in cui uccidere significa “semplicemente” cancellare qualcosa che disturba, con l’indifferenza con cui si schiaccia una mosca, credendo di poter modificare la realtà senza alcuna considerazione d’amore né di rispetto elementare per la vita.
C’è una presunzione narcisistica gravissima: solo la mia vita, i miei desideri contano, il resto – perfino i figli e la famiglia – va eliminato fisicamente perché ora non mi è più necessario. Anzi, mi è d’impiccio.
Esiste un riemergere dell’impulsività dell’uomo primitivo, che uccide senza più mediare tra desiderio di uccidere e atto di uccidere. Il lobo frontale, normalmente deputato al controllo degli impulsi, ha crescenti difficoltà a controllarli, per un ritardo maturativo sempre più diffuso, anche – ma non solo – tra i giovani di oggi. Il che, sia chiaro, forse spiega, ma mai giustifica.
C’è la fiction dell’uccidere, come se si fosse attori in un film e tutto potesse poi tornare normale.
Esiste, in casi come questi, una perdita assoluta del senso di responsabilità verso la vita degli altri. Nello specifico, quest’uomo non ha (più) sentito i propri doveri di marito e padre. Ha visto solo i diritti al proprio progetto di vita.
Sicuramente si parlerà di pensiero schizoide, di quella frattura dell’Io per cui la personalità si sdoppia e una parte agisce come un automa anaffettivo, senza emozioni e sentimenti, come un robot.
Tuttavia il crescere di questi assassinî di familiari, donne e bambini, deve imporre anche un cambio di passo nel giudizio. A furia di capire e comprendere, si è finito per ascoltare e dar spazio (e alibi) alle ragioni di Caino. E degli Abele uccisi tutti i giorni? Di centinaia di donne ammazzate e di figli, quando la furia omicida prende anche loro? «Pazienza, si dice, ormai sono morti. Lui, poverino, lo dobbiamo riabilitare».
Credo sia giunto il momento per dire alto e chiaro che prima di riabilitare bisogna espiare, e a lungo. Quest’uomo deve comprendere la gravità atroce di quello che ha fatto. Comprenderlo almeno nell’assenza dell’abbraccio dei suoi bambini, se non nei sorrisi di sua moglie, se ancora gli è rimasto un neurone capace di sentimenti. Colpe come queste non hanno appello.
E basta indulti ai delitti “passionali”. Io sto, come moltissimi cittadini, con le lacrime agli occhi dalla parte di questi bambini che avevano tutto il diritto di vivere. Dalla parte di una giovane donna che aveva tutto il diritto di farsi un’altra vita con i suoi piccoli, se lui aveva altri orizzonti.
Togliere la vita è un arbitrio inaccettabile in una società civile. Va punito, e a lungo. Prima di comprendere l’assassino, è giusto e doveroso comprendere le vittime, che non avranno più gioia, né un abbraccio, né voce. Il cui ultimo sguardo sulla vita è stato vedere un padre e un marito diventare il loro boia.
Da che parte stiamo?
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