Quanto conta la mente nella percezione del dolore? Moltissimo! Il dolore è un’esperienza soggettiva per definizione, perché è composto da fattori fisici, biologici, e da fattori psichici, strettamente e indissolubilmente intrecciati. Il nostro atteggiamento emotivo, affettivo e anche spirituale nei confronti del dolore può modificare la stessa percezione che ne abbiamo, l’intensità con cui lo stimolo arriva alla nostra mente, i modi stessi con cui lo esprimiamo, il significato che assume nella nostra vita. Basti pensare alle differenti modalità con cui donne di diverse culture vivono ed esprimono il dolore da parto. Oppure al masochista, per il quale lo stimolo doloroso può diventare fonte di piacere. La psiche condiziona moltissimo anche il modo con cui ognuno di noi “risponde” al dolore. Il modo in cui gli consentiamo o meno di abitare la nostra vita, di trasformarla, di paralizzarla. Il modo in cui lo combattiamo. O il modo in cui impariamo a negoziare il suo significato. E infine le energie che riusciamo a mobilitare per non farlo irrompere in ogni angolo della nostra esistenza, almeno finché la sua intensità è controllabile da un punto di vista psichico e farmacologico-analgesico. Dal punto di vista psichico, esistono tanti modi di “rispondere” al dolore. In effetti, le principali modalità di risposta emotiva al dolore si collocano lungo un continuum. Esso si muove da un polo positivo, caratterizzato da un atteggiamento costruttivo, attivo, in cui la persona mobilita tutte le sue risorse psichiche, intellettuali ed emotive per affrontare la situazione di difficoltà, al polo negativo, caratterizzato al contrario da un atteggiamento “catastrofista”, in cui ogni segnale viene letto come dimostrazione dell’irrisolvibilità del problema, dell’incurabilità della situazione, del destino di infelicità che continua a incombere. Il catastrofismo è tipico, anzitutto, di chi temperamentalmente è pessimista e poco incline a vedere il lato positivo delle cose. Al punto che anche i segnali positivi, come per esempio il miglioramento, vengono banalizzati e minimizzati, con un «Sì, sto un po’ meglio, però… non durerà», oppure: «So già che è un miglioramento transitorio, me lo sento». Questo atteggiamento negativo è di fatto una sorta di “profezia negativa che si autoverifica” come bene avevano teorizzato gli studiosi della comunicazione umana negli anni Ottanta. Il secondo fattore di catastrofismo nasce invece dal sommarsi di esperienze di cura negative. Anche la persona più ottimista, dopo anni di dolore e di cure insoddisfacenti, getta la spugna. Si avvilisce, diventa triste e pessimista. Si chiude in sé. La persistenza del dolore è il peggior nemico dell’atteggiamento attivo costruttivo. Comprensibilmente, le energie (anche psichiche) a disposizione per la lotta contro il dolore tendono con il tempo a esaurirsi. Come aiutare la persona che soffre ad affrontare meglio il dolore? Con terapie farmacologiche adeguate: con analgesici, anzitutto, perché bisogna comunque ridurre la quantità di stimoli dolorosi che arriva al cervello, specie se la causa è una malattia, acuta o cronica, o un trauma. Con antidepressivi, anche a piccole dosi, perché riducono la componente percettiva negativa legata al pessimismo, alla perdita di speranza, alle lenti grigie con cui il malato che ha dolore, specie cronico, considera la propria situazione. Con cibi leggeri e saporiti, e con vitamine e integratori, per riprendere più rapidamente le forze e l’energia psichica, se il dolore ha tolto anche l’appetito. Con il movimento fisico, quando possibile, sia perché aiuta a scaricare le tensioni negative e aumenta le endorfine, le nostre molecole della gioia, che contrastano la depressione e la percezione del dolore sia perché evita le posture alterate che sono ulteriore causa di dolore. Con la preghiera, per chi nella fede trova forza e aiuto nel dare un senso al dolore. Con la meditazione, se praticata con costanza e regolarità, perché ha un dimostrato potere di inibire l’arrivo al cervello degli stimoli dolorosi. Con l’attenzione, la dolcezza, la tenerezza, l’amore, il contatto fisico: una carezza, un abbraccio. Una mamma affettuosa, quando il bambino cade e piange, lo abbraccia e lo coccola, perché questo lo rassicura e aiuta a ridurre il dolore. Dovremmo continuare a ricordarci di quanto ci hanno confortato, da piccoli, una abbraccio tenero e una carezza. Di fronte al dolore, ad ogni età, siamo soli e impauriti come bambini. La sensazione di essere soli aumenta enormemente la percezione del dolore. Ricordiamoci allora del grande potere analgesico di un gesto affettuoso che possiamo regalare, tutte le volte in cui il dolore irrompe nella vita di una persona cara. Ricordiamocene in ospedale. Un gesto tenero non costa nulla, ma ha un immenso potere. Perché aiuta la mente a ricaricare le energie e a lottare meglio contro la malattia. Perché non ci fa sentire più soli, perché consola, perché aiuta a sperare.
Un gesto affettuoso per lenire il dolore
14/02/2005
Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano
Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano