Il volontario ospedaliero è un compagno di viaggio. Di un viaggio particolare, il più umano e terribile dei viaggi: quello che attraversa, insieme con il malato, i territori impervi della malattia e del dolore, della disabilità e della perdita di autonomia, della dipendenza fisica e psichica, della paura e della solitudine, della speranza e della morte.
In un viaggio terribile – nel senso dell’antico “deinòs” sofocleo – che può affascinare e spaventare al tempo stesso, è indispensabile essere ben preparati. Conoscere le proprie motivazioni, innanzitutto, perché il viaggio sarà lungo e difficile, entusiasmante e inquietante insieme. E sarebbe rischioso – e controproducente, anche per il nostro compagno di viaggio – avere motivazioni spurie, illusorie, riparative, autocelebrative o narcisistiche (“Quanto sono buono... o bravo!”). Bisogna conoscere la propria forza e le proprie vulnerabilità. Per mantenere un equilibrio profondo, che sappia essere empatico, capace di risonanze sincere con le emozioni, con il dolore e la solitudine dell’altro, e al tempo stesso solido, così “da non lasciarsene travolgere o non turbare il malato con un’emozionalità non controllata”, come ben argomenta Luciano Manicardi in “L’umano soffrire” (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006). Un altro libro prezioso per quella che mi piace definire come “la pragmatica dell’anima”: il modo in cui la ricerca spirituale diventa azione concreta. E si manifesta in quell’atto di pietas suprema che è lo stare vicino, davvero, a chi soffre, a chi è malato, a chi ha perso la speranza di guarire, a chi si confronta con la morte, spesso in immensa e inconfortata solitudine. Per questo se si vuol fare il volontario ospedaliero bisogna prepararsi bene, non solo dal punto di vista emotivo, ma anche del terreno umanissimo che andremo ad attraversare. Bisogna sapere che inaspettatamente il percorso potrà aprirsi su orizzonti luminosi, di fiducia, di rinascita e di speranza, dove è esaltante accompagnare il malato nel percorso di guarigione. Che è tanto più gratificante quanto più il percorso di riconquista della salute fisica si accompagni ad una crescita interiore, emotiva e spirituale. Spirituale in un senso profondo e laico, oltre che, se desiderato, religioso. Continua Manicardi: “La malattia si presenta infatti come evento spirituale perché fa emergere o risveglia in (quasi) ognuno di noi, malato, specie se di una malattia grave, la domanda cruciale sul senso della vita e dei valori dell’esistenza (...) La malattia guida l’uomo ad un ri-centramento, a considerare ciò che nella vita è veramente serio ed essenziale”. Oppure il percorso potrà aprirsi su baratri inattesi, quando l’angoscia di morte esplode per un peggioramento improvviso; oppure per una tardiva consapevolezza su quanta vita sia andata sprecata e quanto poca ne resti per ridare un senso al proprio esistere; o, ancora, per un dolore fisico così ottenebrante e incurabile da far desiderare di morire, per avere finalmente un po’ di pace.
Con l’esperienza, e la condivisione – critica e umile – dell’esperienza di assistere i malati, il volontario può crescere molto. Può crescere in umanità, il metro ultimo del valore di una persona. In generosità, di affetto, di tempo e di presenza. Può crescere nella conoscenza di sé, indispensabile quando ci si voglia confrontare con il lato oscuro dell’esistenza, quello che abbraccia la malattia, il dolore e la morte. Può crescere nella capacità di confortare, che noi medici abbiamo in gran parte perduto. Nella capacità di ascoltare, non solo con l’udito, ma con lo sguardo e con il cuore. Con il contatto della mano, che così tanto ci dice sulla paura, sulla solitudine, sul bisogno di consolazione che ogni malato ha, non solo in ospedale, ma anche nelle nostre famiglie.
Il volontario, che voglia mantenere la verità profonda dell’esperienza di aiuto, dovrà guardarsi tuttavia da insidie e sirene, presenti in ogni viaggio esistenziale: dal rischio che l’assistenza diventi compiaciuto mestiere, fatto di liturgie e riti e frasi fatte; oppure presunzione di bontà o di eccellenza umana; o, ancora, alibi per non guardare altri aspetti bui della propria vita, per cui si assiste volentieri lo sconosciuto in ospedale e non i propri genitori, a casa.
Pur con tutti i chiaroscuri presenti anche dentro la più nobile delle motivazioni, il volontario è oggi una figura centrale della realtà ospedaliera. Prezioso per portare il calore di un sorriso, di una parola sincera e confortante, di una presenza affettuosa e lieve insieme, dentro la freddezza tecnologica e indifferente dei nostri ospedali. Dove il malato è sempre più un corpo, oggetto di cure, e non una persona che soffre, dove la malattia interessa più del malato, e il costo delle cure più della qualità umana, oltre che terapeutica, delle stesse. La necessità che i volontari soddisfano, con la loro presenza preziosa e la loro dedizione, indica bene il grande buco nero della medicina contemporanea: che è diventata così fredda, e così incapace di umanità, che c’è bisogno che altri, volontari e psicologi, facciano quello che, una volta, ogni buon medico sapeva fare: confortare.
In un viaggio terribile – nel senso dell’antico “deinòs” sofocleo – che può affascinare e spaventare al tempo stesso, è indispensabile essere ben preparati. Conoscere le proprie motivazioni, innanzitutto, perché il viaggio sarà lungo e difficile, entusiasmante e inquietante insieme. E sarebbe rischioso – e controproducente, anche per il nostro compagno di viaggio – avere motivazioni spurie, illusorie, riparative, autocelebrative o narcisistiche (“Quanto sono buono... o bravo!”). Bisogna conoscere la propria forza e le proprie vulnerabilità. Per mantenere un equilibrio profondo, che sappia essere empatico, capace di risonanze sincere con le emozioni, con il dolore e la solitudine dell’altro, e al tempo stesso solido, così “da non lasciarsene travolgere o non turbare il malato con un’emozionalità non controllata”, come ben argomenta Luciano Manicardi in “L’umano soffrire” (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006). Un altro libro prezioso per quella che mi piace definire come “la pragmatica dell’anima”: il modo in cui la ricerca spirituale diventa azione concreta. E si manifesta in quell’atto di pietas suprema che è lo stare vicino, davvero, a chi soffre, a chi è malato, a chi ha perso la speranza di guarire, a chi si confronta con la morte, spesso in immensa e inconfortata solitudine. Per questo se si vuol fare il volontario ospedaliero bisogna prepararsi bene, non solo dal punto di vista emotivo, ma anche del terreno umanissimo che andremo ad attraversare. Bisogna sapere che inaspettatamente il percorso potrà aprirsi su orizzonti luminosi, di fiducia, di rinascita e di speranza, dove è esaltante accompagnare il malato nel percorso di guarigione. Che è tanto più gratificante quanto più il percorso di riconquista della salute fisica si accompagni ad una crescita interiore, emotiva e spirituale. Spirituale in un senso profondo e laico, oltre che, se desiderato, religioso. Continua Manicardi: “La malattia si presenta infatti come evento spirituale perché fa emergere o risveglia in (quasi) ognuno di noi, malato, specie se di una malattia grave, la domanda cruciale sul senso della vita e dei valori dell’esistenza (...) La malattia guida l’uomo ad un ri-centramento, a considerare ciò che nella vita è veramente serio ed essenziale”. Oppure il percorso potrà aprirsi su baratri inattesi, quando l’angoscia di morte esplode per un peggioramento improvviso; oppure per una tardiva consapevolezza su quanta vita sia andata sprecata e quanto poca ne resti per ridare un senso al proprio esistere; o, ancora, per un dolore fisico così ottenebrante e incurabile da far desiderare di morire, per avere finalmente un po’ di pace.
Con l’esperienza, e la condivisione – critica e umile – dell’esperienza di assistere i malati, il volontario può crescere molto. Può crescere in umanità, il metro ultimo del valore di una persona. In generosità, di affetto, di tempo e di presenza. Può crescere nella conoscenza di sé, indispensabile quando ci si voglia confrontare con il lato oscuro dell’esistenza, quello che abbraccia la malattia, il dolore e la morte. Può crescere nella capacità di confortare, che noi medici abbiamo in gran parte perduto. Nella capacità di ascoltare, non solo con l’udito, ma con lo sguardo e con il cuore. Con il contatto della mano, che così tanto ci dice sulla paura, sulla solitudine, sul bisogno di consolazione che ogni malato ha, non solo in ospedale, ma anche nelle nostre famiglie.
Il volontario, che voglia mantenere la verità profonda dell’esperienza di aiuto, dovrà guardarsi tuttavia da insidie e sirene, presenti in ogni viaggio esistenziale: dal rischio che l’assistenza diventi compiaciuto mestiere, fatto di liturgie e riti e frasi fatte; oppure presunzione di bontà o di eccellenza umana; o, ancora, alibi per non guardare altri aspetti bui della propria vita, per cui si assiste volentieri lo sconosciuto in ospedale e non i propri genitori, a casa.
Pur con tutti i chiaroscuri presenti anche dentro la più nobile delle motivazioni, il volontario è oggi una figura centrale della realtà ospedaliera. Prezioso per portare il calore di un sorriso, di una parola sincera e confortante, di una presenza affettuosa e lieve insieme, dentro la freddezza tecnologica e indifferente dei nostri ospedali. Dove il malato è sempre più un corpo, oggetto di cure, e non una persona che soffre, dove la malattia interessa più del malato, e il costo delle cure più della qualità umana, oltre che terapeutica, delle stesse. La necessità che i volontari soddisfano, con la loro presenza preziosa e la loro dedizione, indica bene il grande buco nero della medicina contemporanea: che è diventata così fredda, e così incapace di umanità, che c’è bisogno che altri, volontari e psicologi, facciano quello che, una volta, ogni buon medico sapeva fare: confortare.