«Perché mi sta ammazzando di botte? Cosa ho fatto di male? Perché qui, dove dovrei essere protetto? Sono in ospedale!!! Perché proprio adesso?». Questo ha forse pensato il povero vecchio di 77 anni, Luca Toscano, brutalmente ammazzato, di botte e di paura, mentre era ricoverato per accertamenti nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Sessa Aurunca. Ucciso da un giovane 31enne in stato di furia omicida, che già aveva distrutto un bar, sabato scorso: dopo un primo arresto era stato rilasciato. Ieri, lunedì, stava sfasciando auto per strada, in evidente stato confusionale. Di nuovo arrestato, era stato portato nel reparto psichiatrico in cui stamani ha concluso il suo percorso di distruzione con la morte di un povero vecchio ammalato, che ha avuto la sventura di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il giovane assassino è un immigrato irregolare originario del Ghana, cui già nel 2013 era stato negato il permesso di soggiorno. Lettera morta. Tuttavia il problema vero va ben al di là dell’immigrato e dell’irregolarità della sua presenza e riguarda il sistema psichiatrico italiano. Sarebbe potuto succedere ugualmente se un giovane italiano si fosse trovato nella stessa situazione di furia omicida.
La chiusura dei manicomi (con la legge Basaglia del 13 maggio 1978, n. 180, in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”) era nata dall’intento di evitare le segregazioni perpetue, per ridare a tutti i malati psichiatrici un’opportunità di tornare alla vita e alla libertà. La premessa dell’Antipsichiatria, fondata dallo stesso Basaglia, che ha poi animato il disegno della legge omonima, era che i manicomi erano nati da una lettura eccessivamente biologico-neurologica della malattia psichiatrica, e da una minimizzazione delle sue cause sociali.
Quarant’anni dopo, e con una ennesima tragedia come questa, che cosa si può dire? Primo, che le malattie psichiatriche hanno una solidissima base neurologica, ci piaccia o no, alcune più di altre (e sono le più socialmente pericolose).
Secondo, non basta una legge, lodevole nell’intento, a risolvere magicamente molte delle gravi e complesse difficoltà obiettive che la malattia psichiatrica comporta. E che sono rimaste irrisolte nei molti buchi neri che hanno fatto seguito all’attuazione a singhiozzo della legge Basaglia, molto variabile tra le Regioni. Le malattie psichiatriche sono molto diverse tra loro. Hanno diversa gravità di coinvolgimento neurologico, dimostrato da crescenti evidenze scientifiche. Hanno quindi una base biologica certa che per di più viene tragicamente peggiorata dall’uso ripetuto di droghe (oggi così banalizzato). Hanno diversa responsività alle cure, con diversa possibilità di tornare a un funzionamento mentale compatibile con una vita di relazione. E hanno una diversa prognosi, che dovrebbe includere una valutazione rigorosa della stabilità del recupero, così da evitare che in una riattivazione di furia si possa arrivare all’omicidio o alla strage. Il ridare a tutti i malati mentali la possibilità di tornare alla vita sociale ha azzerato “ex lege” queste differenze, che restano invece drammaticamente reali e pericolose nel quotidiano. Basta parlare con i genitori di italianissimi malati psichiatrici che vivono l’inferno in casa e a volte finiscono ammazzati dai loro stessi figli, per rabbia o per soldi, o tutt’e due.
Terzo, va ripensato e riformalizzato il criterio di pericolosità. Se una persona è in preda a un evidente stato confusionale, con una furia distruttiva verso le cose, e quindi, potenzialmente verso le persone, non può essere rimessa subito in libertà. Necessita di una diagnosi accurata, di cure farmacologiche certe e di una valutazione rigorosa delle sua pericolosità, di qualsiasi colore siano la sua pelle e la sua origine. Il dovere di tutelare cittadini innocenti, e per di più in ospedale, viene prima del diritto alla libertà. Giustamente non si può guidare in stato di ebbrezza, perché altera temporaneamente la prontezza di riflessi e il giudizio: e lasciamo circolare liberamente persone così strutturalmente pericolose?
La libertà è un diritto meraviglioso, ma richiede un cervello sufficientemente integro da saper rispettare le regole e i doveri della convivenza civile, nel rispetto della vita. Ogni cittadino è prezioso, anche se vecchio e malato. La grande sfida è consentire il massimo di recupero ai malati mentali con il massimo di tutela degli altri cittadini. Obiettivo non perseguibile se neghiamo le basi biologiche delle malattie psichiatriche, la loro diversa gravità e la necessità di luoghi di cura dedicati per quelle più gravi e pericolose.
La chiusura dei manicomi (con la legge Basaglia del 13 maggio 1978, n. 180, in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”) era nata dall’intento di evitare le segregazioni perpetue, per ridare a tutti i malati psichiatrici un’opportunità di tornare alla vita e alla libertà. La premessa dell’Antipsichiatria, fondata dallo stesso Basaglia, che ha poi animato il disegno della legge omonima, era che i manicomi erano nati da una lettura eccessivamente biologico-neurologica della malattia psichiatrica, e da una minimizzazione delle sue cause sociali.
Quarant’anni dopo, e con una ennesima tragedia come questa, che cosa si può dire? Primo, che le malattie psichiatriche hanno una solidissima base neurologica, ci piaccia o no, alcune più di altre (e sono le più socialmente pericolose).
Secondo, non basta una legge, lodevole nell’intento, a risolvere magicamente molte delle gravi e complesse difficoltà obiettive che la malattia psichiatrica comporta. E che sono rimaste irrisolte nei molti buchi neri che hanno fatto seguito all’attuazione a singhiozzo della legge Basaglia, molto variabile tra le Regioni. Le malattie psichiatriche sono molto diverse tra loro. Hanno diversa gravità di coinvolgimento neurologico, dimostrato da crescenti evidenze scientifiche. Hanno quindi una base biologica certa che per di più viene tragicamente peggiorata dall’uso ripetuto di droghe (oggi così banalizzato). Hanno diversa responsività alle cure, con diversa possibilità di tornare a un funzionamento mentale compatibile con una vita di relazione. E hanno una diversa prognosi, che dovrebbe includere una valutazione rigorosa della stabilità del recupero, così da evitare che in una riattivazione di furia si possa arrivare all’omicidio o alla strage. Il ridare a tutti i malati mentali la possibilità di tornare alla vita sociale ha azzerato “ex lege” queste differenze, che restano invece drammaticamente reali e pericolose nel quotidiano. Basta parlare con i genitori di italianissimi malati psichiatrici che vivono l’inferno in casa e a volte finiscono ammazzati dai loro stessi figli, per rabbia o per soldi, o tutt’e due.
Terzo, va ripensato e riformalizzato il criterio di pericolosità. Se una persona è in preda a un evidente stato confusionale, con una furia distruttiva verso le cose, e quindi, potenzialmente verso le persone, non può essere rimessa subito in libertà. Necessita di una diagnosi accurata, di cure farmacologiche certe e di una valutazione rigorosa delle sua pericolosità, di qualsiasi colore siano la sua pelle e la sua origine. Il dovere di tutelare cittadini innocenti, e per di più in ospedale, viene prima del diritto alla libertà. Giustamente non si può guidare in stato di ebbrezza, perché altera temporaneamente la prontezza di riflessi e il giudizio: e lasciamo circolare liberamente persone così strutturalmente pericolose?
La libertà è un diritto meraviglioso, ma richiede un cervello sufficientemente integro da saper rispettare le regole e i doveri della convivenza civile, nel rispetto della vita. Ogni cittadino è prezioso, anche se vecchio e malato. La grande sfida è consentire il massimo di recupero ai malati mentali con il massimo di tutela degli altri cittadini. Obiettivo non perseguibile se neghiamo le basi biologiche delle malattie psichiatriche, la loro diversa gravità e la necessità di luoghi di cura dedicati per quelle più gravi e pericolose.
Malattie psichiatriche Omicidio / Femminicidio / Infanticidio Riflessioni di vita