Uomini parenti degli scimpanzé? Forse, ma lontanissimi. E qualcuno ancora ne dubita. Quando guardiamo una scimmia dritto negli occhi, quando osserviamo le prodezze clownesche e seduttive degli scimmiottini nati in cattività, subiamo una seduzione misteriosa, sottilmente inquietante, che di solito esorcizziamo con divertite risate. Con fatica gli uomini, e nemmeno tutti, hanno digerito il fattaccio: la scoperta di Darwin che la nostra orgogliosa e (a volte) pensante specie discende dalla scimmia.
Con ancora più sussiego abbiamo accettato il corollario darwiniano che «la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto grande sia, è certamente di gradi e non di qualità». Ohi ohi! Ed è stata un vero e proprio colpo al cuore del nostro narcisismo la scoperta che i nostri geni sono uguali a quelli degli scimpanzé per ben il 98% del patrimonio ereditario. Come dire che tutta la differenza è codificata da una misera quisquiglia del 2%. Tuttavia la nostra narcisissima specie non si arrende facilmente a simili umiliazioni concettuali. Ragion per cui combiniamo il dovere intellettuale di accettare la continuità evolutiva – inesorabilmente dimostrata – con il bisogno emotivo, continuo e mai placato, di trovare in modo altrettanto evidente le prove della nostra separatezza e superiorità qualitativa.
Cerchiamo cioè di definire una frontiera aurea, un criterio ferreo per segnare uno spazio invalicabile tra la mentalità e il comportamento degli esseri umani e quello di tutte le altre specie. Insomma, possiamo anche discendere da loro, ma in qualche punto del nostro procedere abbiamo attraversato un “Rubicone della differenza” che non ammette guadi per nessun’altra specie. Il Rubicone è consistito nell’invenzione di utensili forgiati per determinati compiti; e in particolari attributi mentali come l’esistenza di un senso morale (ma allora molti cosiddetti umani sono infinitamente più arretrati delle scimmie…) o la capacità di astrazione. Ma tutti questi “indiscutibili” criteri si sono dimostrati fallaci.
Le scimmie, opportunamente istruite, hanno perfino capacità di fare calcoli matematici semplici, e quindi elaborazioni astratte. Incredibile. E giocano correttamente anche con elementari computer. L’ultimo caposaldo del Rubicone della differenza restava il concetto di “cultura”, definita come un distinto e complesso comportamento che nasce in una popolazione locale e viene trasmesso da una predisposizione all’apprendimento, più che da fattori genetici. Saltato anche questo. Molti studi dimostrano l’esistenza di culture complesse tra gli scimpanzé, che imparano comportamenti nuovi attraverso l’osservazione e l’imitazione dei loro simili (i “neuroni specchio” sono stati scoperti nei macachi nel 1992!) e li trasmettono poi ad altri individui. Insomma, anche le scimmie “apprendono” osservando e imitando, prima nel cervello, poi nella realtà. E insegnano giocando.
Riflettere su queste somiglianze ci può insegnare molto sui nostri stili di pensiero. Sul nostro bisogno di dicotomizzare sempre la realtà con criteri aprioristici quali “superiore/inferiore” o “migliore/peggiore”, spesso figli più di pre-giudizi che di fatti obiettivi. Sul bisogno di cercare barriere auree che “dimostrino” a priori l’indiscutibile eccellenza, nostra e delle nostre idee. Basti pensare alla millenaria convinzione che i bianchi siano “qualitativamente” diversi. E migliori “geneticamente” di tutte le altre razze. Una presunzione smentita da molte prove. A parità di condizioni affettive e ambientali, l’eccellenza non ha differenze di razza né di colore di pelle. Darwin sorride.
Con ancora più sussiego abbiamo accettato il corollario darwiniano che «la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto grande sia, è certamente di gradi e non di qualità». Ohi ohi! Ed è stata un vero e proprio colpo al cuore del nostro narcisismo la scoperta che i nostri geni sono uguali a quelli degli scimpanzé per ben il 98% del patrimonio ereditario. Come dire che tutta la differenza è codificata da una misera quisquiglia del 2%. Tuttavia la nostra narcisissima specie non si arrende facilmente a simili umiliazioni concettuali. Ragion per cui combiniamo il dovere intellettuale di accettare la continuità evolutiva – inesorabilmente dimostrata – con il bisogno emotivo, continuo e mai placato, di trovare in modo altrettanto evidente le prove della nostra separatezza e superiorità qualitativa.
Cerchiamo cioè di definire una frontiera aurea, un criterio ferreo per segnare uno spazio invalicabile tra la mentalità e il comportamento degli esseri umani e quello di tutte le altre specie. Insomma, possiamo anche discendere da loro, ma in qualche punto del nostro procedere abbiamo attraversato un “Rubicone della differenza” che non ammette guadi per nessun’altra specie. Il Rubicone è consistito nell’invenzione di utensili forgiati per determinati compiti; e in particolari attributi mentali come l’esistenza di un senso morale (ma allora molti cosiddetti umani sono infinitamente più arretrati delle scimmie…) o la capacità di astrazione. Ma tutti questi “indiscutibili” criteri si sono dimostrati fallaci.
Le scimmie, opportunamente istruite, hanno perfino capacità di fare calcoli matematici semplici, e quindi elaborazioni astratte. Incredibile. E giocano correttamente anche con elementari computer. L’ultimo caposaldo del Rubicone della differenza restava il concetto di “cultura”, definita come un distinto e complesso comportamento che nasce in una popolazione locale e viene trasmesso da una predisposizione all’apprendimento, più che da fattori genetici. Saltato anche questo. Molti studi dimostrano l’esistenza di culture complesse tra gli scimpanzé, che imparano comportamenti nuovi attraverso l’osservazione e l’imitazione dei loro simili (i “neuroni specchio” sono stati scoperti nei macachi nel 1992!) e li trasmettono poi ad altri individui. Insomma, anche le scimmie “apprendono” osservando e imitando, prima nel cervello, poi nella realtà. E insegnano giocando.
Riflettere su queste somiglianze ci può insegnare molto sui nostri stili di pensiero. Sul nostro bisogno di dicotomizzare sempre la realtà con criteri aprioristici quali “superiore/inferiore” o “migliore/peggiore”, spesso figli più di pre-giudizi che di fatti obiettivi. Sul bisogno di cercare barriere auree che “dimostrino” a priori l’indiscutibile eccellenza, nostra e delle nostre idee. Basti pensare alla millenaria convinzione che i bianchi siano “qualitativamente” diversi. E migliori “geneticamente” di tutte le altre razze. Una presunzione smentita da molte prove. A parità di condizioni affettive e ambientali, l’eccellenza non ha differenze di razza né di colore di pelle. Darwin sorride.
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