“Le Arti solide: la pietra, il terrazzo, le vere da pozzo, i camini. Le Arti duttili: il legno, i metalli, l’oro e l’argento. Le Arti fragili: il vetro, la ceramica, lo stucco. Le Arti soffici: la seta, gli arazzi, i ricami e i merletti”. Un libro ti può già conquistare dalla copertina, sontuosa, e dall’indice, se inizia con capitoli seducenti come questi. Parte forte e continua fortissimo un libro davvero raro: “Le Arti decorative a Venezia”, di Doretta Davanzo Poli (Bolis Edizioni), che ho avuto la fortuna di ricevere in dono da un’amica colta, intelligente e innamorata di questa splendida città.
Un libro che mi auguro regali la mia stessa soddisfazione e gioia ai lettori che lo sceglieranno. Per i testi, scritti in un italiano leggiadro e leggero, limpido e profondo, con parole scelte con estrema cura e al tempo stesso con tale dominanza della lingua da sedurre l’attenzione dolcemente, con un piacere polifonico. Un piacere fatto della storia singolare delle Arti, raccontata con rara accuratezza documentaria, delle immagini evocate, ma anche della musicalità che emana dalla nostra lingua quando è usata con maestria. E, soprattutto, per le immagini, con le magnifiche fotografie di Mark E. Smith, che scelgono di Venezia una visione particolare, sconosciuta ai più, fatta di dettagli sublimi, di bellezza e originalità assolute.
Merita assaporare il libro a casa, in assorto silenzio, in questo inizio d’autunno, per regalarsi ore di piacere puro, estetico e sensuale, intriso di nostalgia per una bellezza diventata effimera. Lapidata com’è ogni giorno da un turismo sempre più distruttivo. Leggere per prepararsi a un viaggio diverso, da fare con un altro spirito e una più consapevole attenzione. Magari a novembre, quando il turismo sciacallo dell’estate si sarà attenuato.
Leggendo questo libro raro, ho scoperto aspetti curiosi e impensati. Di quanto, per esempio, in questa città definita dal Sanudo “in acqua, ma senza acqua” fossero importanti i pozzi, per avere acqua potabile. Pozzi intesi sia come cisterne, sia come veri pozzi in cui l’acqua veniva filtrata attraverso la sabbia del proprio bacino con un sistema ipogeo congegnato con procedimento millenario. Alla loro costruzione partecipavano diverse corporazioni, intrecciando competenze raffinate e diverse per garantire una resa di limpidezza e potabilità che ha sfidato i secoli. Le vere da pozzo sono le loro sponde in pietra. Delle oltre settemila, tra pubbliche e private, ne sono rimaste meno di duemilacinquecento: le altre rubate, meglio saccheggiate (dal francese "saccager", depredare e mettere nel sacco) da un mercato antiquariale avido e predatorio.
In questa città nata dal nulla, sorta sull’acqua e l’argilla, gli uomini hanno portato tutto: il sogno di una città unica, costruita sul mare per essere più sicura; il legno delle fondamenta su cui ancora si erge (minacciato per anni dalle vibrazioni delle spaventose navi da crociera che entrano nel suo bacino, come elefanti in una cristalleria); le pietre e i marmi, il ferro, l’acqua dolce per dissetarsi. La sua essenza è scenografica, creata dalla mente e dalle mani degli uomini, riuniti in Corporazioni di Arti maggiori e minori. Con architetti che sapevano essere artigiani intagliatori, come Andrea Palladio, o disegnatori di stucchi, come Jacopo Sansovino. O pittori insigni come Tiziano, Tintoretto e Veronese, capaci al contempo di disegnare raffinati arazzi e mosaici. E perfino terrazzi, quei pavimenti decorativi su cui camminiamo inconsapevoli, in cui l’accostamento sapiente di elementi di marmo e pietra, tagliati in forme geometriche e accostati con caleidoscopico virtuosismo grafico, consente di creare veri e propri tappeti solidi di rara suggestione. E le arti fragili? Vetri, ceramiche, stucchi: capolavori assoluti.
Osservando e assaporando, aumentano il piacere e la malinconia. Venezia sta morendo, oltraggiata e devastata da un turismo predatorio, volgare, negligente se non vandalo. Basti guardare la condizione di degrado delle aiuole vicino alla stazione di Santa Lucia, diventate discariche a cielo aperto, e sentire gli odori di rifiuti biologici lasciati ad ogni angolo. E non dai cani. E noi, eredi immeritevoli di tanta bellezza, complici indifferenti di un brutale e avvilente assassinio. Avremo il coraggio e la forza morale di fermarlo in tempo?
Un libro che mi auguro regali la mia stessa soddisfazione e gioia ai lettori che lo sceglieranno. Per i testi, scritti in un italiano leggiadro e leggero, limpido e profondo, con parole scelte con estrema cura e al tempo stesso con tale dominanza della lingua da sedurre l’attenzione dolcemente, con un piacere polifonico. Un piacere fatto della storia singolare delle Arti, raccontata con rara accuratezza documentaria, delle immagini evocate, ma anche della musicalità che emana dalla nostra lingua quando è usata con maestria. E, soprattutto, per le immagini, con le magnifiche fotografie di Mark E. Smith, che scelgono di Venezia una visione particolare, sconosciuta ai più, fatta di dettagli sublimi, di bellezza e originalità assolute.
Merita assaporare il libro a casa, in assorto silenzio, in questo inizio d’autunno, per regalarsi ore di piacere puro, estetico e sensuale, intriso di nostalgia per una bellezza diventata effimera. Lapidata com’è ogni giorno da un turismo sempre più distruttivo. Leggere per prepararsi a un viaggio diverso, da fare con un altro spirito e una più consapevole attenzione. Magari a novembre, quando il turismo sciacallo dell’estate si sarà attenuato.
Leggendo questo libro raro, ho scoperto aspetti curiosi e impensati. Di quanto, per esempio, in questa città definita dal Sanudo “in acqua, ma senza acqua” fossero importanti i pozzi, per avere acqua potabile. Pozzi intesi sia come cisterne, sia come veri pozzi in cui l’acqua veniva filtrata attraverso la sabbia del proprio bacino con un sistema ipogeo congegnato con procedimento millenario. Alla loro costruzione partecipavano diverse corporazioni, intrecciando competenze raffinate e diverse per garantire una resa di limpidezza e potabilità che ha sfidato i secoli. Le vere da pozzo sono le loro sponde in pietra. Delle oltre settemila, tra pubbliche e private, ne sono rimaste meno di duemilacinquecento: le altre rubate, meglio saccheggiate (dal francese "saccager", depredare e mettere nel sacco) da un mercato antiquariale avido e predatorio.
In questa città nata dal nulla, sorta sull’acqua e l’argilla, gli uomini hanno portato tutto: il sogno di una città unica, costruita sul mare per essere più sicura; il legno delle fondamenta su cui ancora si erge (minacciato per anni dalle vibrazioni delle spaventose navi da crociera che entrano nel suo bacino, come elefanti in una cristalleria); le pietre e i marmi, il ferro, l’acqua dolce per dissetarsi. La sua essenza è scenografica, creata dalla mente e dalle mani degli uomini, riuniti in Corporazioni di Arti maggiori e minori. Con architetti che sapevano essere artigiani intagliatori, come Andrea Palladio, o disegnatori di stucchi, come Jacopo Sansovino. O pittori insigni come Tiziano, Tintoretto e Veronese, capaci al contempo di disegnare raffinati arazzi e mosaici. E perfino terrazzi, quei pavimenti decorativi su cui camminiamo inconsapevoli, in cui l’accostamento sapiente di elementi di marmo e pietra, tagliati in forme geometriche e accostati con caleidoscopico virtuosismo grafico, consente di creare veri e propri tappeti solidi di rara suggestione. E le arti fragili? Vetri, ceramiche, stucchi: capolavori assoluti.
Osservando e assaporando, aumentano il piacere e la malinconia. Venezia sta morendo, oltraggiata e devastata da un turismo predatorio, volgare, negligente se non vandalo. Basti guardare la condizione di degrado delle aiuole vicino alla stazione di Santa Lucia, diventate discariche a cielo aperto, e sentire gli odori di rifiuti biologici lasciati ad ogni angolo. E non dai cani. E noi, eredi immeritevoli di tanta bellezza, complici indifferenti di un brutale e avvilente assassinio. Avremo il coraggio e la forza morale di fermarlo in tempo?
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