Lo stupro di una bambina è un gesto empio. E’ empio perché viola irreparabilmente la sacralità del suo corpo. Perché ferisce irreparabilmente la sua anima. Perché le causa un dolore fisico tremendo, per l’effrazione violenta del suo corpicino immaturo. E le provoca un dolore psichico ancora più difficile da curare: per l’angoscia di morte che la bambina prova, per le minacce di cui viene fatta oggetto, se dovesse parlare, per gli incubi che le riproporranno mille volte ancora tutto l’orrore agghiaccciante di quell’esperienza. E’ un gesto empio, non ultimo, perché marchia la piccola in modo infamante anche dal punto di vista sociale.
Il corpo di una bambina non deve essere toccato, e men che meno violentato, da alcuno. Che il gesto sia compiuto, come sembra sia successo a Palermo, da un ragazzo di 14 anni, non riduce in alcun modo la gravità del fatto. Anzi, solleva una serie di questioni cardinali. Innanzitutto, oggi come duemila anni fa, il corpo di una bambina deve essere rispettato e lei deve essere “intatta” (intacta), non toccata, come sanciva l’antico diritto romano, con una precisione linguistica ancora profondamente radicata nell’inconscio individuale e collettivo. Il codice giustinianeo (Codex Iustinianus, 9.13), promulgato in tempi che definiamo barbarici (VI° secolo dopo Cristo, nel 533), in caso di stupro di una bambina o di un’adolescente vergine, nata libera (ossia non schiava), prevedeva per il colpevole addirittura la pena di morte, tout court. Vedendo nel gesto non solo un danno irreparabile alla piccola violata, ma una lesione – anche patrimoniale – recata alla sua famiglia e una ferita morale alla società. Dettaglio non trascurabile, determinava per legge che i beni del colpevole (e di chi l’avesse aiutato nella violenza) venissero dati alla piccola o alla giovane come risarcimento dell’irreparabile danno subito. Cosicché la giovane potesse anche non sposarsi (la violenza subita riduceva drasticamente il suo valore sociale, anche come futura moglie) e avere di che vivere.
All’opposto, in tempi che con inappropriato orgoglio definiamo civili, lo stupro è sempre più banalizzato. Non solo. Ancor oggi, passata l’ondata emotiva di solidarietà, resta drammaticamente forte la sensazione collettiva che una bambina o un’adolescente violentata sia un oggetto degradato per sempre. Sensazione che genera giudizi, evitamenti, ostracismi, abusi ulteriori, diretti e indiretti. Basta parlare con le vittime di abusi infantili per rendersi conto di quanto quella ferita resti aperta, spesso per tutta la vita, e determini risposte sociali più o meno apertamente aggressive e distruttive. Come se ci fosse addirittura una colpa, o una responsabilità, nell’essere state violentate, anche da piccole. Come se l’essere state violate una prima volta desse in qualche modo un “diritto” sul loro corpo, non più intatto, da parte di altri maschi. Così era e così è. Le acque profonde dell’inconscio, e i giudizi morali e sociali che ne derivano, sono rimasti immutati.
Se davvero è stato il ragazzo quattordicenne a violarla, come va intesa la sua responsabilità? A quattordici anni compiuti non si è ancora adulti, ma sì è già usciti dal limbo dell’irresponsabilità dell’infanzia. Se si è in grado di violentare, si è in grado di rispondere della colpa commessa. E la punizione non può essere simbolica. Il mito che l’adolescenza sia una fase eticamente franca della vita deve finire. E dove non può (ancora) rispondere il ragazzo, deve rispondere la famiglia, anche dal punto di vista del risarcimento economico, come da recenti, giustissime, sentenze della magistratura. Risarcimento che è minimo, rispetto alla tragedia, ma che è anche l’unico tasto cui siano ancora sensibili troppi genitori per altri aspetti cinici sui delitti, di vario grado, compiuti dai loro figli.
Purtroppo tutto questo è a valle di una tragedia già avvenuta. Come prevenire gesti simili? In concreto, non affidando mai una bambina in custodia a un maschio, adolescente o adulto. Che sia persona conosciuta, o addirittura un familiare o un parente stretto, non riduce il rischio. L’evidenza epidemiologica e medico legale ci dice che purtroppo la grande maggioranza delle violenze e degli stupri è compiuta da persone note alla piccola (o al piccolo, visto che la violenza può toccare anche i maschi). Smettendo di coltivare a livello educativo il mito dell’irresponsabilità, e iniziando invece fin dalle scuole medie a chiarire ai ragazzi il crescendo di responsabilità civile e penale cui vanno incontro. Smettendo di definire “ragazzate” delitti imperdonabili, solo perché compiuti da minori. Immedesimandoci nelle emozioni agghiacciate di una bambina, invece che nei diritti ideologicamente distorti di adolescenti sempre più distruttivi. Riscoprendo che anche la punizione è necessaria e può avere un valore formativo. La certezza della pena deve essere un pilastro della giustizia, e dell’educazione al rispetto delle regole, di cui è cardinale il rispetto della persona, ad ogni età. In una società alla deriva, si deve ripartire dai valori fondamentali. Tra questi, la sacralità fisica e psichica della persona, e del suo corpo, ancora più se bambina. Senza eccezioni.
Il corpo di una bambina non deve essere toccato, e men che meno violentato, da alcuno. Che il gesto sia compiuto, come sembra sia successo a Palermo, da un ragazzo di 14 anni, non riduce in alcun modo la gravità del fatto. Anzi, solleva una serie di questioni cardinali. Innanzitutto, oggi come duemila anni fa, il corpo di una bambina deve essere rispettato e lei deve essere “intatta” (intacta), non toccata, come sanciva l’antico diritto romano, con una precisione linguistica ancora profondamente radicata nell’inconscio individuale e collettivo. Il codice giustinianeo (Codex Iustinianus, 9.13), promulgato in tempi che definiamo barbarici (VI° secolo dopo Cristo, nel 533), in caso di stupro di una bambina o di un’adolescente vergine, nata libera (ossia non schiava), prevedeva per il colpevole addirittura la pena di morte, tout court. Vedendo nel gesto non solo un danno irreparabile alla piccola violata, ma una lesione – anche patrimoniale – recata alla sua famiglia e una ferita morale alla società. Dettaglio non trascurabile, determinava per legge che i beni del colpevole (e di chi l’avesse aiutato nella violenza) venissero dati alla piccola o alla giovane come risarcimento dell’irreparabile danno subito. Cosicché la giovane potesse anche non sposarsi (la violenza subita riduceva drasticamente il suo valore sociale, anche come futura moglie) e avere di che vivere.
All’opposto, in tempi che con inappropriato orgoglio definiamo civili, lo stupro è sempre più banalizzato. Non solo. Ancor oggi, passata l’ondata emotiva di solidarietà, resta drammaticamente forte la sensazione collettiva che una bambina o un’adolescente violentata sia un oggetto degradato per sempre. Sensazione che genera giudizi, evitamenti, ostracismi, abusi ulteriori, diretti e indiretti. Basta parlare con le vittime di abusi infantili per rendersi conto di quanto quella ferita resti aperta, spesso per tutta la vita, e determini risposte sociali più o meno apertamente aggressive e distruttive. Come se ci fosse addirittura una colpa, o una responsabilità, nell’essere state violentate, anche da piccole. Come se l’essere state violate una prima volta desse in qualche modo un “diritto” sul loro corpo, non più intatto, da parte di altri maschi. Così era e così è. Le acque profonde dell’inconscio, e i giudizi morali e sociali che ne derivano, sono rimasti immutati.
Se davvero è stato il ragazzo quattordicenne a violarla, come va intesa la sua responsabilità? A quattordici anni compiuti non si è ancora adulti, ma sì è già usciti dal limbo dell’irresponsabilità dell’infanzia. Se si è in grado di violentare, si è in grado di rispondere della colpa commessa. E la punizione non può essere simbolica. Il mito che l’adolescenza sia una fase eticamente franca della vita deve finire. E dove non può (ancora) rispondere il ragazzo, deve rispondere la famiglia, anche dal punto di vista del risarcimento economico, come da recenti, giustissime, sentenze della magistratura. Risarcimento che è minimo, rispetto alla tragedia, ma che è anche l’unico tasto cui siano ancora sensibili troppi genitori per altri aspetti cinici sui delitti, di vario grado, compiuti dai loro figli.
Purtroppo tutto questo è a valle di una tragedia già avvenuta. Come prevenire gesti simili? In concreto, non affidando mai una bambina in custodia a un maschio, adolescente o adulto. Che sia persona conosciuta, o addirittura un familiare o un parente stretto, non riduce il rischio. L’evidenza epidemiologica e medico legale ci dice che purtroppo la grande maggioranza delle violenze e degli stupri è compiuta da persone note alla piccola (o al piccolo, visto che la violenza può toccare anche i maschi). Smettendo di coltivare a livello educativo il mito dell’irresponsabilità, e iniziando invece fin dalle scuole medie a chiarire ai ragazzi il crescendo di responsabilità civile e penale cui vanno incontro. Smettendo di definire “ragazzate” delitti imperdonabili, solo perché compiuti da minori. Immedesimandoci nelle emozioni agghiacciate di una bambina, invece che nei diritti ideologicamente distorti di adolescenti sempre più distruttivi. Riscoprendo che anche la punizione è necessaria e può avere un valore formativo. La certezza della pena deve essere un pilastro della giustizia, e dell’educazione al rispetto delle regole, di cui è cardinale il rispetto della persona, ad ogni età. In una società alla deriva, si deve ripartire dai valori fondamentali. Tra questi, la sacralità fisica e psichica della persona, e del suo corpo, ancora più se bambina. Senza eccezioni.
Abuso sessuale: approfondimenti disponibili sul sito della Fondazione Alessandra Graziottin
Abuso, molestie, stalking, violenza sessuale e domestica Bambini Riflessioni di vita