La storia, che ha molti risvolti, si svolge nella luminosa e ricca Treviso, che “di chiare fontane tutta ride”, come diceva Fazio degli Uberti. Scrittore medioevale, capace di cogliere in una frase la solarità verdeggiante di una città che, grazie alle acque di risorgiva del dolce Sile, che l’attraversa, poteva contare su un’irrigazione costante in tempi in cui era invece la generosità del clima a decidere o meno la fortuna dei raccolti. In passato giardino di Venezia, ride ancora oggi, Treviso, premiata da un’economia vivace, abbellita da ristrutturazioni attente e di ottimo gusto, signora gentile e sensuale, abituata da secoli a lasciar convivere con nonchalance vizi privati e pubbliche virtù. Sorride, la città, e finge di indignarsi per questa storia paradigmatica della deriva delle norme che ormai rischia di diventare la regola tra i nostri ragazzi. Sorride, in realtà compiaciuta, quando nelle battute affiora quasi un certo orgoglio per il singolare talento imprenditoriale della ragazzina, certo non ben declinato, ma che sembra aver già calcolato bene vantaggi e rischi d’impresa. Cosa venderà domani, questa ragazza qui? si chiedono curiosi i più lungimiranti...
Innanzitutto, perché una ragazzina così giovane comincia, di fatto, a prostituirsi “virtualmente”? Tra l’altro, senza nessuna percezione delle implicazioni morali del suo comportamento? Lo fa perché si diverte. Perché soddisfa il proprio bisogno di esibizionismo, oggi non solo lasciato a briglia sciolta, ma iperattivato dai modelli mediatici di riferimento. Lo fa perché ne trae una molteplice gratificazione narcisistica: perché diventa oggetto di desiderio, ma senza “sporcarsi” in contatti diretti; perché si consente il gusto della trasgressione più eccitante, usando addirittura i bagni della scuola come miniset fotografico; perché riesce a farsi pagare puntualmente dai suoi clienti d’immagini, e a comprarsi in piena autonomia i vestiti che le piacciono; perché ha scelto acquirenti non minacciosi e non rischiosi, in quanto coetanei e, probabilmente, più immaturi di lei. In scala ridotta, perché superminorenni, i protagonisti di questa storia agiscono paradossalmente rispettando ciascuno le regole del libero mercato: io ti vendo un prodottino che tu vuoi, e tu mi paghi subito quanto concordato. Punto. Tutti felici, tranne gli adulti. In un mondo plutocratico, ma qui dovremmo dire “scheicratico” (schei = denaro, ricchezza, in veneto), la ragazzina ha agito quello che respira nell’aria. L’importante è guadagnare. Tanto e subito. Possibilmente senza troppa fatica (questa è una novità, mutuata dal modello mediatico delle veline, rispetto al passato di durissimi lavoratori, tipico dei veneti). Vendendo idee, sogni o desideri. E calibrando i rischi.
“Storia di solitudine”, dice qualche esperto. Francamente, non mi sembra. Ho della solitudine un’altra percezione. Storia piuttosto paradigmatica di latitanza educativa da parte della famiglia, questo sì. E di quanto impulsività e principio del piacere possano indurre a fare, se non frenati da una sana educazione e solidi principi etici, anche nel perseguire redditività e guadagno. Storia di strumentalizzazione precoce del corpo, oggetto in vendita, per ora virtuale, in linea di nuovo con i modelli mediatici. Storia di autonomia gestionale, senza orchi e senza streghe. E dunque fuori dallo stereotipo della adolescente vittima: questa ragazzina invece ha già ben chiaro quello che vuole e che può ottenere “vendendosi bene”. Per ora, addirittura, con mani e coscienza pulite, secondo il codice di autogiustificazione “guardare e non toccare”. Certo, si tratta di atti impuri, secondo gli antichi comandamenti. Ma chi li rispetta più, se basta conquistarsi uno ricco e famoso per potersi sposare in chiesa con scollatura mozzafiato?
E chi dovrebbe dare ai bambini e agli adolescenti una solida base etica? La famiglia, che insegue a suo modo il modello scheicratico e, cieca, non si accorge che una figlia dodicenne arriva a casa con abiti firmati, o che comunque non hanno comprato la mamma o il papà. La famiglia che dorme, e non fa più la fatica, crescente, di educare i figli a perseguire modelli di comportamento sani e rigorosi. La scuola, che non educa al rispetto delle regole, anche minime. Certo, è stata un’insegnante più attenta, capace di cogliere le coincidenze tra le uscite dalla classe della ragazzina e un’attivazione di telefonini in classe poco dopo, a scoprire il tutto: ma non era stato emesso un decreto ministeriale per cui i telefonini, a scuola, dovrebbero stare chiusi? Povera scuola: non più cuore del sapere e dell’apprendere, ma set di fatto di prostituzione virtuale, vestita d’innocenza.
Infine, è questo di Treviso un caso isolato? No. Sono migliaia le ragazze che vendono le proprie foto, più o meno svestite, per pochi euro. La dodicenne trevigiana è solo molto più giovane della media. Già spregiudicata, strumentale, lucida, determinata: il modello mignon di un certo tipo di donna rampante che sa come usarsi per ottenere quello che vuole. Senza etica e senza regole, le donne possono diventare più ciniche e pericolose degli uomini. E’ questo che volevamo e abbiamo sognato?
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