“Gentile Professoressa, due mesi fa mia moglie è stata colta da un attacco di panico. E’ stata un’esperienza tremenda, anche perché dai sintomi che aveva sembrava addirittura un attacco cardiaco. Poi in pronto soccorso ci hanno tranquillizzato, ma intanto a lei è rimasta la paura che un giorno tutto questo possa ripetersi, una paura che la sta cambiando in profondità: era una donna allegra e aperta, ora è timorosa di tutto, esce contro voglia, si sta chiudendo in se stessa. Io cerco di scuoterla, di incoraggiarla a riprendere la vita di prima (magari con meno impegni e meno stress, visto che era molto presa dal lavoro), ma lei mi risponde che è stata troppo male e che la sola idea che l’evento possa verificarsi di nuovo la getta nello sconforto più assoluto. Che cosa possiamo fare per scongiurare il pericolo di una ricaduta e riprendere poco per volta i nostri ritmi abituali? E se, come abbiamo letto su una rivista, l’attacco di panico ha una base genetica, c’è il pericolo che nostra figlia prima o poi abbia lo stesso problema? Grazie di cuore per tutte le indicazioni che ci potrà dare”.
Sergio B.
Sergio B.
Gentile signor Sergio, capisco la vostra preoccupazione. L’attacco di panico è un disturbo da non sottovalutare, sia per il carico di sofferenza psicofisica che comporta, sia perché compromette seriamente la qualità di vita non solo di chi ne è colpito, ma anche dei familiari, degli amici, dei colleghi: tutte conseguenze che state amaramente sperimentando anche voi. In positivo, con le giuste terapie e soprattutto adeguati stili di vita, esso può essere efficacemente prevenuto. Cercherò quindi di spiegarvi che cosa succede nel nostro corpo quando si scatena l’attacco di panico, come curarlo sul piano farmacologico e soprattutto come prevenirlo con alcune semplici strategie.
E' davvero possibile prevenire un simile problema?
Certamente sì, ma per capire come sono necessarie alcune precisazioni. Come mi capita spesso di sottolineare con le mie pazienti, il fatto che un disturbo abbia una base genetica non significa che esso si manifesterà con certezza nel corso della vita. La familiarità per l’attacco di panico, ad esempio, è solo un fattore “predisponente”, e nemmeno l’unico: la vulnerabilità è spesso associata anche all’avere avuto genitori ansiosi, iperprotettivi e tendenti a presentare il mondo come un luogo minaccioso. La predisposizione si traduce però in patologia effettiva solo se interviene un’altra categoria di fattori, detti “precipitanti”: per esempio, uno stile di vita poco sano, o un lungo periodo di stress, che fanno per l’appunto precipitare una situazione già a rischio.
Esiste poi un terzo gruppo di fattori, detti “di mantenimento”, che invece possono ritardare la guarigione una volta che l’attacco di panico sia avvenuto: fra questi, purtroppo, l’omissione diagnostica, ossia una diagnosi errata che a sua volta porta a una terapia non corretta. Oggi la conoscenza di queste patologie è decisamente buona, ma fino a qualche anno fa si avevano mediamente cinque ricoveri in pronto soccorso, con le diagnosi più varie, prima che la valutazione corretta venisse finalmente formulata.
La prevenzione, quindi, si gioca prevalentemente sui fattori precipitanti: adottando uno stile di vita sano, e riducendo lo stress, sua moglie potrà evitare nuovi attacchi, e sua figlia potrebbe non andare mai incontro alla brutta esperienza della mamma. In parallelo, l’aiuto farmacologico somministrato dopo un primo episodio contribuisce a mettere sotto controllo i meccanismi neurobiologici sottesi alla reazione di panico, riducendo il rischio di ricadute.
Esiste poi un terzo gruppo di fattori, detti “di mantenimento”, che invece possono ritardare la guarigione una volta che l’attacco di panico sia avvenuto: fra questi, purtroppo, l’omissione diagnostica, ossia una diagnosi errata che a sua volta porta a una terapia non corretta. Oggi la conoscenza di queste patologie è decisamente buona, ma fino a qualche anno fa si avevano mediamente cinque ricoveri in pronto soccorso, con le diagnosi più varie, prima che la valutazione corretta venisse finalmente formulata.
La prevenzione, quindi, si gioca prevalentemente sui fattori precipitanti: adottando uno stile di vita sano, e riducendo lo stress, sua moglie potrà evitare nuovi attacchi, e sua figlia potrebbe non andare mai incontro alla brutta esperienza della mamma. In parallelo, l’aiuto farmacologico somministrato dopo un primo episodio contribuisce a mettere sotto controllo i meccanismi neurobiologici sottesi alla reazione di panico, riducendo il rischio di ricadute.
Come si manifesta l'attacco di panico?
Normalmente scatta all’improvviso. Il cuore inizia a battere all’impazzata, il corpo è attraversato da tremori, un dolore acuto trafigge il torace, e il respiro viene a mancare, come se un peso comprimesse il torace. Sono soprattutto questi sintomi che possono far pensare a un infarto, come è avvenuto nel caso di sua moglie. In parallelo, la persona prova una sensazione di vero e proprio terrore, spesso associata a forte nausea e una sensazione di testa vuota.
Da che cosa sono provocati questi sintomi così violenti?
Da un terremoto improvviso di adrenalina, l’ormone dello stress, che si libera in risposta all’attivazione di un’area del cervello che regola i nostri sistemi di allarme e sopravvivenza. Nell’attacco di panico questa zona non si attiva in risposta a una minaccia esterna, ma in risposta a stimoli interni (ad esempio, un lungo periodo di stress da superlavoro, come per sua moglie). I nostri sistemi di difesa scattano improvvisamente ma senza un motivo obiettivo, come succede quando una centralina di allarme va in tilt e comincia a suonare anche in assenza di reali effrazioni. A quel punto, il rilascio massiccio di adrenalina, che è un potente vasocostrittore e broncocostrittore, causa la sensazione di dolore cardiaco, la sudorazione fredda, la fame d’aria, l’ansia incontrollabile.
Quanto è frequente l'attacco di panico?
Interessa l’1-3 per cento della popolazione generale, e fino all’8 per cento dei pazienti che si rivolgono al medico di famiglia. Inoltre colpisce due volte più le donne rispetto agli uomini. Questo accade perché le vie e i centri nervosi che coordinano l’emozione di panico sono più sensibili agli estrogeni e alle loro fluttuazioni. Proprio per questo motivo, l’incidenza del disturbo nelle donne ha un primo picco nell’adolescenza e un secondo intorno ai 45 anni, quando sono massime le variazioni dei livelli estrogenici.
Grande nemico della vita personale e familiare, l’attacco di panico si associa alla depressione, all’agorafobia e al disturbo d’ansia generalizzato. Chi ne è colpito inizia ad avere un vero e proprio terrore che l’evento si ripeta, e tende a evitare ogni contatto sociale nell’illusione che lo stare nella “tana” (un comportamento condiviso da molti animali nel momento del pericolo) lo protegga da altre esperienze simili.
Grande nemico della vita personale e familiare, l’attacco di panico si associa alla depressione, all’agorafobia e al disturbo d’ansia generalizzato. Chi ne è colpito inizia ad avere un vero e proprio terrore che l’evento si ripeta, e tende a evitare ogni contatto sociale nell’illusione che lo stare nella “tana” (un comportamento condiviso da molti animali nel momento del pericolo) lo protegga da altre esperienze simili.
E quanto pesa effettivamente la componente ereditaria?
I gemelli monozigoti, ossia identici, sono più frequentemente colpiti entrambi rispetto ai gemelli eterozigoti, ossia diversi come due normali fratelli. L’attacco di panico, inoltre, è otto volte più probabile nei familiari di una persona che ne sia già colpita, rispetto alla popolazione generale. Tutto questo indica che la predisposizione genetica ha la sua importanza, anche se – ripeto – familiarità non significa malattia conclamata. La controprova di ciò sta nel fatto che, secondo studi recenti, l’80% delle vittime di un attacco ha avuto un periodo di forte stress nell’anno precedente e presenta una carenza cronica di sonno, con difficoltà ad addormentarsi e/o risvegli notturni frequenti. Il terremoto neurochimico, quindi, per quanto favorito dalla genetica, viene poi concretamente scatenato da questi fattori.
Come si fa a capire se una persona è vulnerabile all'attacco di panico?
Due sono le domande critiche da fare: «Negli ultimi sei mesi le è capitato di sentirsi improvvisamente terrorizzato, ansioso o molto a disagio?» e «Le è successo di sentire improvvisamente il cuore battere all’impazzata, si è sentito debolissimo e le mancava il fiato?». Se la persona risponde “sì”, ha una forte probabilità di essere vulnerabile alla reazione di panico.
Quali particolari stili di vita aiutano a prevenire l'attacco?
Il primo consiglio è di dormire almeno 7-8 ore per notte, anche da adulti. In secondo luogo, è consigliabile fare ogni giorno un po’ di movimento fisico (jogging, bicicletta, ginnastica aerobica, ballo), in modo da scaricare in modo sano l’ansia e lo stress che accumuliamo nella vita quotidiana. Da questo punto di vista, sono utili anche lo yoga e il training autogeno respiratorio. A livello di alimentazione, va il più possibile limitata l’assunzione di sostanze eccitanti, come il the, il caffè e gli alcolici. Totalmente da eliminare poi – e non solo per prevenire l’attacco di panico – ogni tipo di droga, in particolare cocaina ed ecstasy. E’ infine utile mantenere una buona vita di relazione e affetti solidi, evitando nei limiti del possibile le situazioni troppo stressanti (anche se questo, specialmente sul lavoro, non è sempre facile).
E i farmaci, in che modo aiutano?
Gli psicofarmaci, sempre da assumere sotto controllo medico, svolgono un ruolo prezioso nel caso in cui la persona sia già stata vittima di un attacco, o manifesti comunque livelli di ansia sproporzionati rispetto alle situazioni reali. Gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) e le benzodiazepine, in particolare, “calmano” il sistema di allarme che è andato in tilt e ridanno fiato a chi si trovi paralizzato dalla paura che l’attacco si ripeta. E’ bene però ricordare che i farmaci affiancano, ma non sostituiscono, il contributo degli stili di vita di cui parlavamo poco fa.
Una volta individuato il farmaco giusto, è saggio iniziare da dosi minime e salire gradualmente alla dose terapeutica, perché altrimenti potrebbero comparire effetti collaterali prima dell’effetto curativo. Lo stesso vale per la riduzione, quando il benessere sia stato stabilmente ritrovato.
In parallelo, nelle forme di panico più severe, una psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale (con terapeuti specializzati in quest’area) può ottimizzare il risultato dei farmaci.
Una volta individuato il farmaco giusto, è saggio iniziare da dosi minime e salire gradualmente alla dose terapeutica, perché altrimenti potrebbero comparire effetti collaterali prima dell’effetto curativo. Lo stesso vale per la riduzione, quando il benessere sia stato stabilmente ritrovato.
In parallelo, nelle forme di panico più severe, una psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale (con terapeuti specializzati in quest’area) può ottimizzare il risultato dei farmaci.