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La morte violenta di Yara: aiutiamo i nostri figli a riconoscere il male

28/02/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il ritrovamento del corpo della piccola Yara chiude con una sentenza di morte tre mesi di attesa disperata per la sua famiglia. Tutti lo temevamo fin dall’inizio, per quell’intuizione impotente e amara che ci prende quando il male colpisce fulmineo, silenzioso e irreparabile. Il corpo è stato ritrovato “in un luogo molto battuto”. E tutte le ricerche precedenti? E i cani addestratissimi? In margine annoto un dettaglio: l’“esperto” che fumava il sigaro vicino al cane, inquinandone in modo evidente la capacità di riconoscere segnali minimi, ha mostrato un’arrogante e assoluta mancanza di professionalità, su cui, mi pare, nessuno è intervenuto.
In questo Paese si tollera tutto, senza nemmeno più indignarsi. Rassegnanti al peggio, come vecchi disillusi che non credono più alla possibilità di cambiare in meglio le cose. Almeno un po’. Almeno per poter dire alla propria coscienza: «Ci ho provato». Io ci provo, con voi amiche e amici lettori, in una rete invisibile e forte di persone di buona volontà. In questi ultimi tempi troppo zitte. Troppo rassegnate. Ma quando un’altra ragazzina limpida e innocente viene sacrificata alla brutalità del male, punta dell’iceberg di una violenza crescente ormai quotidiana contro la donna, dobbiamo tutti interrogarci su un quesito cardinale: che cosa possiamo fare, ciascuno nella propria vita, per ridurre questi rischi? Per aumentare la sicurezza dei nostri paesi, delle nostre cittadine e delle nostre case, perché molte, troppe brutalità avvengono tra le mura domestiche, come è successo ad Avetrana e in molti altri delitti e abusi. Non, pare, per Yara. Che comunque è morta, portando con sé lo sgomento inconsolabile, l’orrore devastante, la solitudine terrorizzata e senza più conforto delle ultime ore.
Se cerco di immedesimarmi in quella piccola, resto agghiacciata e senza più parole. Noi adulti abbiamo una immensa responsabilità, indipendentemente dal fatto di avere figli, grandi o piccoli. Ci sono alcuni passi da fare: ma non possiamo pensare di migliorare il mondo, se non cominciamo da noi stessi. Cattolici o laici o d’altra fede, guardiamoci dentro al cuore e chiediamoci: «Mi sto comportando bene, in maniera corretta, limpida, pulita? E non solo sul fronte sessuale. O sto assecondando i miei istinti peggiori?». Il Nord-Est, secondo uno studio recentissimo, è in testa all’uso di pornografia su Internet. Ma questo significa assecondare proprio quella visione strumentale e brutale del corpo – femminile o maschile, ma soprattutto femminile – come puro oggetto di piacere, di eccitazione e trasgressione, e di abuso. Si dice: «E’ un gioco, un divertimento virtuale, dov’è il problema?». Forse inizia come gioco, ma diventa persuasivo: le cose viste e riviste diventano “normali”, e ciò che sembrava trasgressivo ieri, diventa lecita consuetudine oggi. Perché così funzionano i neuroni specchio del nostro cervello. Ma così si facilita anche un pericoloso passaggio dal vedere al fare, con la complicità di una morale sociale sempre più lassa e acquiescente, e di una certezza di impunità ancora più inquietante.
In parallelo alla riflessione personale, a un esame di coscienza necessario e urgente, dobbiamo interrogarci su quanto educhiamo i nostri piccoli all’autoprotezione. Anni fa citavo in questa rubrica il francese “passaporto di prudenza” che dovremmo dare a figli, allievi e nipoti, con grande attenzione. Senza psicosi, ma con sano pragmatismo: «Amore, non accettare passaggi, caramelle e inviti da nessuno» (arrivo a dire nemmeno da conoscenti che non siano più che vagliati). «E dimmi subito se qualcosa di strano succede, anche se sei stato minacciato». Parole semplici e chiare. In parallelo, alla sera, almeno all’ora di cena, dobbiamo spegnere televisione, radio, telefonini e tutte le diavolerie che ci distraggono da un ascolto vero, e tornare a parlarci, ad avere intorno il silenzio che consente di cogliere un battito di ciglia, un’inquietudine che nostro figlio/a non riesce a dire, un malessere (non solo dovuto a violenza, ma anche all’inquietudine e alle incertezze del crescere) che merita ascolto e diritto di cittadinanza primario nel dialogo familiare.
Se è vero che un figlio è il bene più prezioso che abbiamo, se è vero che il nostro sguardo sul futuro passa attraverso gli occhi, il cuore, gli ideali che riusciamo a trasmettere a un figlio, se è vero che i suoi passi continueranno i nostri, per simili o diverse e più luminose strade, non possiamo essere ciechi, sordi e muti. Il dialogo con i nostri figli è l’unico modo per essere loro vicini con autorevolezza, fermezza e un amore solido che non ceda alla seduzione di essere acquiescente per quieto vivere. Che li incoraggi all’autonomia, ma non alla temerarietà; al gusto di provarsi con le cose, ma con sano senso del limite; ad annusare il pericolo e riconoscerlo, perché i predatori esistono e oggi sono più numerosi e scaltri di ieri. Perché i malvagi esistono, insidiosi e devastanti, e dobbiamo cercare di non dover piangere domani su un figlio cui oggi non abbiamo insegnato a riconoscere ed evitare il male. Di ogni tipo.

Abuso, molestie, stalking, violenza sessuale e domestica Adolescenti e giovani Aggressività e violenza Educazione Omicidio / Femminicidio / Infanticidio Riflessioni di vita

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