«Ho sempre avuto le mestruazioni», sostiene la donna che sembra abbia ucciso il proprio neonato a Settimo Torinese. Una perdita di sangue periodica può avvenire in gravidanza. Può indicare una variazione dei livelli di ormoni estrogeni e progesterone, che spesso sottende una minaccia d’aborto, o più raramente, una variazione senza significato clinico negativo. Tuttavia la gravidanza dà molti altri segni: la crescita del seno, per esempio, che va ben oltre il modesto gonfiore premestruale. Le nausee dei primi mesi. L’aumento di volume dell’addome. I movimenti del piccolo che si muove, ben avvertibili dal quinto mese in poi, e ancor più riconoscibili, e prima, quando si è alla seconda gravidanza. La signora dice di non essersi accorta di nulla: una “rimozione”, una negazione assoluta della verità dei cambiamenti del corpo, come se non esistessero. Perché?
Può un marito non accorgersi che la propria donna è incinta? Può non vedere i mille piccoli e grandi cambiamenti del suo corpo che per nove mesi modificano in modo così profondo le linee e i comportamenti? Possono non accorgersi familiari e amici? In questa tragedia della cecità, che è costata la vita a un piccino innocente, Giovanni, buttato via senza un’emozione di tenerezza che potesse prevenire e bloccare quel gesto, accanto a una mamma che nega a se stessa la verità di una vita che cresce dentro di lei ci sono coprotagonisti e comparse che sembrano aver condiviso una rimozione collettiva. Perché?
Che cosa succede quando il bambino urge per nascere, quando le contrazioni, già vissute in un precedente travaglio, obbligano a riconoscere che c’è una nuova vita che preme e chiede di venire al mondo? E quando quel piccino l’ha in mano e lo vede, non sente sorpresa, desiderio di protezione e cura, ma urgenza di liberarsene come un fagotto vecchio, da buttare letteralmente dalla finestra. Perché? E il marito, che «sente come un miagolio, ma non ho collegato»? Può un donna partorire in bagno da sola senza che un suono ne riveli il travaglio e il dolore? Perché?
L’infanticidio è una piaga millenaria, più frequente quando la donna era sola, quando le condizioni economiche erano disperate, quando il bambino presentava un’anomalia fisica. Perché è successo in una famiglia in cui c’è già un bimba, in una situazione di apparente normalità di vita?
Ho seguito altri casi simili, nel corso della mia professione di ginecologa. La situazione più drammatica e scatenante è stata l’avere un primo figlio, o figlia, seriamente malato. L’angoscia che anche il secondo possa avere una malattia seria, e subire lo stesso destino del primo, può scatenare prima la rimozione e poi la follia omicida. Come se l’eliminare i bambini, buttandoli dalla finestra o in un canale, sia l’unica via di salvezza da un quotidiano vissuto come una tragedia insopportabile. Azione omicida in cui il pensiero primitivo «li uccido, li libero dalla vita e mi libero dal pensiero» non viene inibito da alcuna riflessione, da alcuna emozione d’amore. Non si sa se un’angoscia relativa alla salute della prima figlia sia stata il tormento segreto che ha portato alla rimozione della gravidanza e poi all’assassinio. In altri casi l’angoscia può nascere da una crisi profonda della relazione coniugale, oppure dall’illegittimità del concepimento o, ancora, da una patologia psichiatrica dissociativa “sottosoglia”, non ancora diagnosticata, che dà il primo segno di sé in questo modo esplosivo e irreparabile.
E’ possibile che la donna sia malata, in senso psichiatrico. Ma è la tragedia della cecità, in tutti quelli che la conoscevano e in diverso modo pensavano di volerle bene, l’aspetto più disturbante: un bambino innocente è stato rifiutato al punto da venire ucciso, e nessuno, per nove mesi, si è accorto di una morte annunciata da troppi segni negati.
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