Dov’è finita l’intima arte di conversare a due? E’ frequente vedere al ristorante coppie, giovani e non solo, con blackberry e smartphone sempre accesi sul tavolo. Si parlano, ma si ascoltano a metà, un occhio sul partner, uno, perfino più attento, sullo schermo o sulla tastiera. Si interrompono continuamente per scrivere o rispondere. Difficile che ci sia un senso di intimità, in una conversazione che non è a due, ma a tre o dieci, anche se il ristorante è delizioso e a lume di candela. Una candela romantica, ma smarrita, perché in realtà illumina cervelli che sono altrove.
Il problema non è solo italiano. “Alone together” (Soli insieme) è il titolo del saggio di Sherry Turkle, docente al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston (USA): una ricercatrice che da quindici anni sta studiando l’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre relazioni interpersonali. Il quadro è sconfortante. E non si limita alle coppie. In treno, noto molte mamme, spesso straniere e con bambini piccolissimi, che passano tutto il tempo a chattare: il piccolo è un fagotto appoggiato sulle gambe, la loro testa è altrove, per tutte le ore di viaggio. Come se stare connessi con il mondo (?) fosse più importante e urgente di stare insieme alla persona con cui ci si trova in quel momento: sia esso il/la partner o perfino un figlio. Lo stesso sta avvenendo in molte famiglie.
Questa distrazione sistematica dalla persona che sta in quel momento con noi, quali conseguenze può avere? La prima, un profondo senso di solitudine all’interno della coppia: prima carsico, esplode poi con la sensazione di essersi persi di vista da tempo, quando uno dei due si innamora di un altro. Secondo, la perdita di profondità nella relazione, quando non si riesce a parlare più di sé: delle proprie aspirazioni e delusioni, dei propri desideri e dei propri bisogni, dei propri sogni e delle molte difficoltà che oggi tutti incontriamo nel realizzarli; e quando, gravissimo, non si riesce più ad ascoltare: con il continuo rumore di fondo di altri messaggi in arrivo e in partenza, e con le risonanze che questi evocano nel cuore e nella mente, ascoltare diventa difficile se non impossibile.
Messaggi ed emozioni, sguardi e battiti di ciglia, sorrisi e sospiri, tutto il messaggio verbale e non verbale dell’altro/a si perde nel silenzioso baccano tecnologico che ormai ci avvolge dal mattino alla sera. E per quel 12-17% di coppie che rispondono al telefonino anche quando fanno l’amore, il baccano le insegue anche di notte, in camera da letto. Dove alla temibile televisione di ieri si aggiunge un ulteriore veleno erotico: la comunicazione “twittata” o con sms. A meno che l’ascolto “altro” dedicato ai messaggi non sia in realtà una fuga dal dirsi la verità più amara: che ci si è già persi di vista, ma non si ha il coraggio di ammetterlo (ancora) nemmeno con se stessi.
Attenzione! Se l’altro/a resta importante per noi, è meglio fare un patto chiaro: a tavola, e a letto, tutto spento, tranne la mente e il cuore. E se si scopre che non si ha più niente da dirsi? Meglio prenderne atto, che continuare con una fiction di coppia. In famiglia, invece, dove si è padri e figli, o madri e figli, per sempre, il tempo della conversazione dovrebbe restare uno degli spazi sacri da preservare a tutti i costi, anche da noi stessi e dalle nostre manie di connessione. Almeno per il tempo della cena, e/o di una passeggiata serale, ci dovrebbe essere la regola, rispettata da tutti, di spegnere il rumore di fondo: radio, TV e tutti gli aggeggi personali. Se si vuole essere ancora famiglia, e non un aggregato variamente infelice di sconosciuti, chiamati genitori e figli. Vicini, più o meno illusoriamente, a chi è lontano, perché siamo “connessi”, e lontani da chi ci è vicino. Presenti in una comunicazione frammentata e remota, e assenti col cuore.
In questo paradosso di vicinanze lontane, e di lontananze da vicino, sta una delle radici di tanto senso di solitudine contemporaneo, di tanta banalizzazione nella conversazione, della difficoltà di gustarsi un dialogo degno del nome. Con il rischio concreto che twittando twittando si perda anche il senso profondo di se stessi.
Il problema non è solo italiano. “Alone together” (Soli insieme) è il titolo del saggio di Sherry Turkle, docente al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston (USA): una ricercatrice che da quindici anni sta studiando l’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre relazioni interpersonali. Il quadro è sconfortante. E non si limita alle coppie. In treno, noto molte mamme, spesso straniere e con bambini piccolissimi, che passano tutto il tempo a chattare: il piccolo è un fagotto appoggiato sulle gambe, la loro testa è altrove, per tutte le ore di viaggio. Come se stare connessi con il mondo (?) fosse più importante e urgente di stare insieme alla persona con cui ci si trova in quel momento: sia esso il/la partner o perfino un figlio. Lo stesso sta avvenendo in molte famiglie.
Questa distrazione sistematica dalla persona che sta in quel momento con noi, quali conseguenze può avere? La prima, un profondo senso di solitudine all’interno della coppia: prima carsico, esplode poi con la sensazione di essersi persi di vista da tempo, quando uno dei due si innamora di un altro. Secondo, la perdita di profondità nella relazione, quando non si riesce a parlare più di sé: delle proprie aspirazioni e delusioni, dei propri desideri e dei propri bisogni, dei propri sogni e delle molte difficoltà che oggi tutti incontriamo nel realizzarli; e quando, gravissimo, non si riesce più ad ascoltare: con il continuo rumore di fondo di altri messaggi in arrivo e in partenza, e con le risonanze che questi evocano nel cuore e nella mente, ascoltare diventa difficile se non impossibile.
Messaggi ed emozioni, sguardi e battiti di ciglia, sorrisi e sospiri, tutto il messaggio verbale e non verbale dell’altro/a si perde nel silenzioso baccano tecnologico che ormai ci avvolge dal mattino alla sera. E per quel 12-17% di coppie che rispondono al telefonino anche quando fanno l’amore, il baccano le insegue anche di notte, in camera da letto. Dove alla temibile televisione di ieri si aggiunge un ulteriore veleno erotico: la comunicazione “twittata” o con sms. A meno che l’ascolto “altro” dedicato ai messaggi non sia in realtà una fuga dal dirsi la verità più amara: che ci si è già persi di vista, ma non si ha il coraggio di ammetterlo (ancora) nemmeno con se stessi.
Attenzione! Se l’altro/a resta importante per noi, è meglio fare un patto chiaro: a tavola, e a letto, tutto spento, tranne la mente e il cuore. E se si scopre che non si ha più niente da dirsi? Meglio prenderne atto, che continuare con una fiction di coppia. In famiglia, invece, dove si è padri e figli, o madri e figli, per sempre, il tempo della conversazione dovrebbe restare uno degli spazi sacri da preservare a tutti i costi, anche da noi stessi e dalle nostre manie di connessione. Almeno per il tempo della cena, e/o di una passeggiata serale, ci dovrebbe essere la regola, rispettata da tutti, di spegnere il rumore di fondo: radio, TV e tutti gli aggeggi personali. Se si vuole essere ancora famiglia, e non un aggregato variamente infelice di sconosciuti, chiamati genitori e figli. Vicini, più o meno illusoriamente, a chi è lontano, perché siamo “connessi”, e lontani da chi ci è vicino. Presenti in una comunicazione frammentata e remota, e assenti col cuore.
In questo paradosso di vicinanze lontane, e di lontananze da vicino, sta una delle radici di tanto senso di solitudine contemporaneo, di tanta banalizzazione nella conversazione, della difficoltà di gustarsi un dialogo degno del nome. Con il rischio concreto che twittando twittando si perda anche il senso profondo di se stessi.