“Ho voglia di innamorarmi”. Con l’imperiosità virulenta di un’epidemia questa possibilità si affaccia alla mente di un numero crescente di persone, uomini e donne, nel mondo occidentale. A volte confessata solo a se stessi, a volte svelata all’amica o all’amico più caro, a volte all’amante su cui rapidi proiettiamo gli abiti del Grande Amore o della seducente sirena. Incuranti della verità del nostro oggetto d’amore, e persino della sua possibile indifferenza al nostro bisogno di felicità o di risposte, che potrebbe anche ferirci molto a fondo. Apparentemente, questo desiderio trasversale, che non conosce confini di età, di genere, di cultura, di educazione, nasce da un’emozione improvvisa, da uno slancio romantico, da un frammento di sogno riemerso quasi di soppiatto nella tranquilla certezza di vite spesso già consolidate.
Che cosa ci dice questa “voglia” che irrompe improvvisa e rapidamente diventa il pensiero dominante, un’ossessione quasi, da cui non riusciamo (o vogliamo) liberarci? Può essere espressiva di uno stato nascente, di una nuova fase della vita, di un bisogno di rinnovamento, che trova nell’amore il catalizzatore più potente, rapido, piacevole e rivoluzionario. O difensiva, rispetto a sentimenti negativi che ci feriscono e inquietano a fondo: per esempio, può essere la risposta reattiva a una malattia o ad un incidente, che d’improvviso ci fa sentire con un brivido la brevità assoluta della vita, la sua impredicibilità, la sua fugacità. E insieme la scarsa soddisfazione di una vita confortante ma prevedibile o comunque parziale rispetto alle aspettative della giovinezza. O, ancora, la voglia d’innamorarsi è la via di fuga da una palude esistenziale, e a volte anche spirituale, da cui non riusciamo ad uscire in altro modo.
A ben vedere, comunque, la voglia di innamorarsi che diventa tarlo, inquietudine, malessere, veste sentimenti molto complessi. E’ allora la punta dell’iceberg, luminosa e perfino seducente, nelle infinite possibilità che apre, di più insidiosi ammassi profondi di conflitti interni, di ferite, di irrisolutezze, di scacchi esistenziali o professionali cui non si riesce a dare una risposta pragmatica sul loro terreno.
Recentemente, l’ho vista spesso, questa fuga nel bisogno di innamorarsi, in uomini – giovani e meno giovani – in crisi professionale. Soprattutto quando un primo, grosso scacco di lavoro si abbatte sull’Io scardinando la più solida certezza su cui la maggioranza degli uomini costruisce uno dei pilastri portanti della propria autostima: il successo professionale. Un licenziamento inatteso, anche solo perché tutta l’azienda ha chiuso; un cliente importante perduto; un mancato avanzamento professionale, già promesso; una commessa saltata, un prestito non ottenuto, che paralizza un progetto: ed ecco che dal nucleo depressivo che pian piano s’impadronisce del corpo e della mente esce un tentativo di risposta non sul fronte professionale ma emotivo, che può avere tanti colori e diversi significati.
L’innamoramento “espressivo”, vissuto come gratificazione, come risarcimento di fronte ai tiri mancini del destino, come autoterapia, come ricarica di energia, può darci la forza, poi, di riesaminare seriamente la nostra vita e di affrontare con coraggio tutte le macerie che il tempo e i nostri errori avevano accumulato. In sé, questa possibilità contiene davvero una promessa di felicità, se un colpo di fortuna ci porta ad incontrare, proprio nel momento più nero, la persona emotivamente ed eticamente sana, capace di aiutarci a riportare la luce – vera – nella nostra vita. Più frequentemente, tuttavia, proprio per la natura compensatoria e proiettiva, difensiva e riparativa appunto, di questo bisogno d’amore, la scelta del partner si rivela fallace. O perché copriamo di talenti e qualità una persona modesta, o comunque normale, cui solo il nostro “furor amandi” poteva dare tanta luce e smalto e seduttività. O perché aumentiamo la nostra stessa vulnerabilità innamorandoci di una persona già legata, o che comunque ci corrisponde solo molto parzialmente. O che, a sua volta, ha gli stessi bisogni e le stesse frustrazioni, le stesse inconcludenze, lo stesso bisogno di compenso: si crea allora una sorta di “folie à deux”, di follia a due, dove la passione divampa giocando tra due realtà e due sogni, e dove il gioco di proiezioni può costruire all’inizio premesse entusiasmanti. E al tempo stesso esasperare le vulnerabilità che possono accumularsi fino a delusioni vertiginose. Perché si rivela uno slancio enorme, con il motore a mille, ma senza direzione. Una passione cieca, che può consegnarci, feriti a fondo, a solitudini ancora più dolorose.
Quando la voglia di innamorarsi è difensiva e illusoria, nel suo tentativo magico di cancellare così problemi e difficoltà che continuano a restare sul tappeto, può infatti esasperare le difficoltà già presenti nella realtà. Il lavoro già in crisi, più trascurato ancora, può imboccare la via dell’irrecuperabilità. La coppia preesistente può lacerarsi molto male, quando il raptus amoroso ci rende indifferenti, o perfino aggressivi, verso il partner tradito e umiliato, distruggendo così le famiglie, ferendo e allontanando i figli, con un danno complessivo, affettivo ed esistenziale, ben superiore alla crisi che aveva portato al bisogno di innamorarsi.
E allora? Sì, la voglia di innamorarsi è bella, magnifica anche, perché ci può far sentire di nuovo pienamente vivi. Perché sia espressiva, e non distruttiva, richiede coraggio: il coraggio di guardare la nostra vita ad occhi aperti, così da affrontare realmente, e in parallelo, tutti gli ostacoli di cui è irto il cammino, soprattutto nelle rivoluzioni esistenziali. Allora l’amore nuovo è la linfa sana per ricominciare, anche con la giusta assunzione di responsabilità verso tutto quello che non va e cui abbiamo concorso con i nostri errori, le nostre illusioni, le nostre inconcludenze. E con chiarezza di direzione nel progetto di cambiamento. Ad occhi chiusi, come l’amore-illusione ci induce a fare, lo scontro, anche violento, con le difficoltà che non avevamo più guardato può essere fatale. Parafrasando Rainer Maria Rilke: “Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare; per chi sa (dove andare) anche la brezza sarà preziosa”.
Che cosa ci dice questa “voglia” che irrompe improvvisa e rapidamente diventa il pensiero dominante, un’ossessione quasi, da cui non riusciamo (o vogliamo) liberarci? Può essere espressiva di uno stato nascente, di una nuova fase della vita, di un bisogno di rinnovamento, che trova nell’amore il catalizzatore più potente, rapido, piacevole e rivoluzionario. O difensiva, rispetto a sentimenti negativi che ci feriscono e inquietano a fondo: per esempio, può essere la risposta reattiva a una malattia o ad un incidente, che d’improvviso ci fa sentire con un brivido la brevità assoluta della vita, la sua impredicibilità, la sua fugacità. E insieme la scarsa soddisfazione di una vita confortante ma prevedibile o comunque parziale rispetto alle aspettative della giovinezza. O, ancora, la voglia d’innamorarsi è la via di fuga da una palude esistenziale, e a volte anche spirituale, da cui non riusciamo ad uscire in altro modo.
A ben vedere, comunque, la voglia di innamorarsi che diventa tarlo, inquietudine, malessere, veste sentimenti molto complessi. E’ allora la punta dell’iceberg, luminosa e perfino seducente, nelle infinite possibilità che apre, di più insidiosi ammassi profondi di conflitti interni, di ferite, di irrisolutezze, di scacchi esistenziali o professionali cui non si riesce a dare una risposta pragmatica sul loro terreno.
Recentemente, l’ho vista spesso, questa fuga nel bisogno di innamorarsi, in uomini – giovani e meno giovani – in crisi professionale. Soprattutto quando un primo, grosso scacco di lavoro si abbatte sull’Io scardinando la più solida certezza su cui la maggioranza degli uomini costruisce uno dei pilastri portanti della propria autostima: il successo professionale. Un licenziamento inatteso, anche solo perché tutta l’azienda ha chiuso; un cliente importante perduto; un mancato avanzamento professionale, già promesso; una commessa saltata, un prestito non ottenuto, che paralizza un progetto: ed ecco che dal nucleo depressivo che pian piano s’impadronisce del corpo e della mente esce un tentativo di risposta non sul fronte professionale ma emotivo, che può avere tanti colori e diversi significati.
L’innamoramento “espressivo”, vissuto come gratificazione, come risarcimento di fronte ai tiri mancini del destino, come autoterapia, come ricarica di energia, può darci la forza, poi, di riesaminare seriamente la nostra vita e di affrontare con coraggio tutte le macerie che il tempo e i nostri errori avevano accumulato. In sé, questa possibilità contiene davvero una promessa di felicità, se un colpo di fortuna ci porta ad incontrare, proprio nel momento più nero, la persona emotivamente ed eticamente sana, capace di aiutarci a riportare la luce – vera – nella nostra vita. Più frequentemente, tuttavia, proprio per la natura compensatoria e proiettiva, difensiva e riparativa appunto, di questo bisogno d’amore, la scelta del partner si rivela fallace. O perché copriamo di talenti e qualità una persona modesta, o comunque normale, cui solo il nostro “furor amandi” poteva dare tanta luce e smalto e seduttività. O perché aumentiamo la nostra stessa vulnerabilità innamorandoci di una persona già legata, o che comunque ci corrisponde solo molto parzialmente. O che, a sua volta, ha gli stessi bisogni e le stesse frustrazioni, le stesse inconcludenze, lo stesso bisogno di compenso: si crea allora una sorta di “folie à deux”, di follia a due, dove la passione divampa giocando tra due realtà e due sogni, e dove il gioco di proiezioni può costruire all’inizio premesse entusiasmanti. E al tempo stesso esasperare le vulnerabilità che possono accumularsi fino a delusioni vertiginose. Perché si rivela uno slancio enorme, con il motore a mille, ma senza direzione. Una passione cieca, che può consegnarci, feriti a fondo, a solitudini ancora più dolorose.
Quando la voglia di innamorarsi è difensiva e illusoria, nel suo tentativo magico di cancellare così problemi e difficoltà che continuano a restare sul tappeto, può infatti esasperare le difficoltà già presenti nella realtà. Il lavoro già in crisi, più trascurato ancora, può imboccare la via dell’irrecuperabilità. La coppia preesistente può lacerarsi molto male, quando il raptus amoroso ci rende indifferenti, o perfino aggressivi, verso il partner tradito e umiliato, distruggendo così le famiglie, ferendo e allontanando i figli, con un danno complessivo, affettivo ed esistenziale, ben superiore alla crisi che aveva portato al bisogno di innamorarsi.
E allora? Sì, la voglia di innamorarsi è bella, magnifica anche, perché ci può far sentire di nuovo pienamente vivi. Perché sia espressiva, e non distruttiva, richiede coraggio: il coraggio di guardare la nostra vita ad occhi aperti, così da affrontare realmente, e in parallelo, tutti gli ostacoli di cui è irto il cammino, soprattutto nelle rivoluzioni esistenziali. Allora l’amore nuovo è la linfa sana per ricominciare, anche con la giusta assunzione di responsabilità verso tutto quello che non va e cui abbiamo concorso con i nostri errori, le nostre illusioni, le nostre inconcludenze. E con chiarezza di direzione nel progetto di cambiamento. Ad occhi chiusi, come l’amore-illusione ci induce a fare, lo scontro, anche violento, con le difficoltà che non avevamo più guardato può essere fatale. Parafrasando Rainer Maria Rilke: “Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare; per chi sa (dove andare) anche la brezza sarà preziosa”.